L'amuleto della libertà 12 - FINE racconto sul web


PARTE PRECEDENTE

Il taxi li lasciò alle nove alla stazione Laurentina da cui presero la metro viaggiando insieme fino alla fermata di Piramide dove, secondo quanto avevano concordato, le loro strade si divisero. Yakima proseguì con la metro sino a Termini mentre Donald s’incammino verso la sede della FAO che raggiunse in una decina di minuti. Doveva incontrarsi con un dirigente che si occupava della questione agricola in Mozambico e dato che Yakima gli aveva detto che sarebbe tornato al castello per suo conto, avrebbe potuto fare una visita ad un vecchio professore che non vedeva da tempo e che abitava proprio da quelle parti. 

Nel mentre, per non rivelare a Donald quanto aveva in mente di fare, Yakima si era inventato una scusa plausibile dicendogli che sarebbe passato in un negozio nei pressi della stazione Termini per acquistare una lampada cinese. Ma non era affatto così! Se aveva deciso di rifilargli la bugia, era solo per tenerlo lontano dalla sua lucida follia.  


Uscito dal passaggio sotterraneo Yakima si ritrovò sotto i portici di piazza Vittorio, il quartiere romano con la più alta percentuale di cinesi. Molti dei suoi compaesani erano impiegati nel ramo commerciale e proponevano, quasi esclusivamente, prodotti importati dalla madrepatria o da zone del mondo sotto il controllo cinese. Camminando lungo il marciapiede vide sfilare davanti ai suoi occhi negozi di ogni genere: abbigliamento, calzature, bigiotteria, aggeggi elettronici, cartoleria oltre a diversi internet point nei quali si potevano acquistare cartoline, giornali, caffè, pure panini cucinati e preparati con salse dagli aromi particolari. Ovunque vetrine addobbate e una miriade di scritte in cinese, indiano e chissà quale altra lingua.... frutto di una globalizzazione selvaggia che sta mettendo a dura prova il mondo.

Naturalmente il suo incedere non passava inosservato dai passanti, i quali si voltarono ad osservarlo ripetutamente. Ma lui, avvezzo a questo genere d’interesse, non faceva più caso alle reazioni che il suo passaggio suscitava; era consapevole della straordinaria corporatura che Madre Natura gli aveva fornito la quale attirava la curiosità della gente come il miele per le api. 

Imboccò Via Emanuele Filiberto, una strada costruita nell'età umbertina, percorrendola sino ad infilarsi in una traversa dove, controllando i numeri civici, raggiunse il portone di un anonimo palazzotto dei primi del novecento. Suonò il campanello e da lì a breve si vide aprire uno spioncino da cui emerse il volto emaciato di un vecchio cinese, peraltro orbo ad un occhio, il quale dopo avergli gettato un’occhiata sommaria, impressionato dalla sua mole, decise di aprire l’uscio senza ulteriori indugi. 

«Sto cercando mister HENG Zhou, è qui?» disse Yakima entrando, chiudendosi la porta alle spalle. 


L’ometto alzò lo sguardo su di lui. «Chi debbo annunciare?» chiese intimorito. 


«Un amico d’infanzia può bastare… anzi non dovrà annunciarmi perché io verrò con lei» affermò deciso, invitandolo a fargli strada. 

Precedendolo lo sconcertato ometto lo condusse attraverso un lungo salone sui cui lati erano in mostra una serie di mobili in palissandro intagliato, poltroncine, credenze, consolle, chitarre, tavoli, un pregiato timone in legno, una psiche dello stesso legno con specchio ovale e uno scrittoio e un secretaire in finto Luigi XVI di ebano con profili dorati. 

A quell’ora c’era poca gente ad aggirarsi per la sala a  visionare una parte della merce esposta su appositi ripiani in cui facevano sfoggio maschere africane in ebano, statuette di elefanti, piccole sculture sia in ebano che in avorio, cofanetti portagioie ed altri preziosi oggetti. 


Superato il salone l’ometto sgiunse ad un'anticamera. «Vado ad annunciarla» disse costui con un fil di voce, accingendosi ad aprire una porta. 

«Mi annuncio da solo non si preoccupi!» rispose lui tempestivo,  afferrando la maniglia e aprendo la porta per chiudersela alle spalle lasciando fuori lo sgomentato inserviente il quale, preso dal terrore tornò indietro di corsa attraversando il salone sotto lo sguardo disorientato dei clienti raggiungendo la porta di accesso e uscendo difilato in strada per cercare aiuto presso il vicino ristorante cinese. 

Intanto addentratosi nella stanza dove pareva non esserci nessuno,  Yakima si guardò attorno: c'era un grosso tavolo al centro, qualche mensola con pochi libri, un quadro con una serie d'ideogrammi, un calendario appeso alla parete con delle belle fotografie di Hong Kong e Shangai by night e tre scalini su cui salì terminanti davanti una porticina rivestita di pregiato mogano. Se ci fosse stato qualcuno, pensò, certamente doveva trovarsi oltre quella porta. Bussò e impugnando il pomello di ottone entrò senza attendere risposta.  


La stanza era grande e sul fondo c’era un tale seduto dietro ad una scrivania intento a visionare con la lente un grosso libro. «Spero di non disturbare», disse entrando risoluto. 
« CHEN Deng! » esclamò sorpreso il tale chiamandolo col suo vero nome.  
«Signore!» rispose Yakima esibendosi in un buffo mezzo inchino.  
«Quale onore! Ma prego, accomodati!» disse allegramente imbarazzato un signore rotondetto con un pizzetto lungo e sottile. Tuttavia se avesse immaginato quello che stava per capitargli, il suo finto buonumore sarebbe svanito all'istante.  
«Allora, come va?» disse Yakima nella sua lingua madre in tono sarcastico e tagliente. «Dobbiamo raccontarci parecchie cose noi due, lo sa? Allora, da dove vogliamo cominciare mio egregio signor HENG Zhou?» soggiunse minaccioso, facendosi sotto.  
Il tono usato ma soprattutto l'espressione glaciale dell'intruso annichilirono il malcapitato. 
«Forse vuole raccontarmi di certe manovre terriere in Mozambico che tanto interesse suscitano nella vostra famiglia... oppure desidera parlarmi della partita di medicinali scaduta giunta in Niger lo scorso aprile?» disse avvicinandosi sempre più a lui il quale si abbarbicò dietro la scrivania restando come incollato alla sontuosa poltrona di pelle. «Magari potrebbe accennarmi qualcosa su Zang Dong Sheng, il suo caro cognato... Si, questo è un argomento che m’interessa molto!» sottolineò, pronto a riservargli il trattamento che aveva riservato per lui. 
  
«Ma di lui non so nulla CHEN Deng, credimi!» si schernì impallidito all'istante nel vedere il tremendo ghigno che aveva dipinto sul viso. Cominciò a tremare come una foglia; sapeva bene quali fossero le sue intenzioni e l’idea di sottoporsi alle sue maldestre cure gli fecero rimpiangere di non essere rimasto nel suo paese a raccogliere kiwi. Senonché il vociare indistinto che si faceva sempre più dappresso, gli fece sperare che stessero arrivando i soccorsi, e ciò gli diede la stura di poter scoccare finalmente la sua malignità. «Pare che tu non voglia proprio darti pace CHEN Deng... Sei venuto qui con idee bellicose mentre io sono pronto ad ascoltarti... Lo faccio solo  per rendere un omaggio postumo a quella sgualdrina di tua sorella... con cui sia io che i miei defunti cognati ci siamo sollazzati!»  disse rovesciandogli addosso il velenoso livore, guardandolo con occhi pieni di odio. 

A quelle miserevoli parole Yakima non poté frenarsi. «Sei solo un piccolo e lurido bastardo che ora ridurrò in polvere!» disse tirandolo su per il bavero della giacca come un fuscello, scaraventandolo sul tavolo, buttando all’aria ogni cosa che vi era sopra. Ma proprio in quell’istante la porticina si spalancò e urlando e imprecando entrarono un nugolo di energumeni cinesi con dei bastoni in mano che si avventarono come furie su di lui, il quale cominciò a far volare sberle e pugni con le sue mostruose manone. Ma questi erano più che mai decisi a fargli la pelle scagliandogli mazzate sulle gambe e tirando fuori coltelli grossi da cucina. 
Yakima aggiustò allora il tiro dei suoi pugni: oltre ad avere dei muscoli d’acciaio aveva una buona conoscenza di tutti i colpi di lotta libera e di pugilato. Assestò una serie di uppercut e diretti che ne mise fuori causa almeno tre e anche se uno era riuscito a sferrargli un potente pugno, nello stesso istante lui si era abbassato, centrando lo stomaco dell’omone con un secco destro subito doppiato da un massacrante sinistro al mento. Un altro ancora gli si avventò contro urlando come un ossesso sferrando una violenta bastonata ma lui, abbassatosi fulmineamente, rialzandosi di scatto lo fece volare addosso alla parete. Così nel volgere di pochi minuti l’efficace controffensiva di Yakima tolse ai soccorritori ogni velleità d'insistere e il resto della demoralizzatissima compagnia trovò conveniente scantonare nel corridoio incontrandosi però con degli agenti di polizia giunti sul posto dopo aver ricevuto una telefonata. Agli ordini dell’ispettore furono tutti fermati e condotti in questura per un interrogatorio. HENG Zhou e altri due furono invece trasportati al vicino ospedale. Yakima di fronte alle richieste dei poliziotti dichiarò le sue generalità ma fu cortesemente invitato a trattenersi nella cella di sicurezza. Per lui il reato ipotizzato era di maltrattamento, percosse e minacce in luogo di lavoro e della distruzione di alcune suppellettili che facevano parte dell’arredo dell’ufficio in cui si trovava. 

Gli fu permesso di chiamare un avvocato che l’arguto e previdente  capo della congregazione cinese di Bellevue aveva messo in allerta in Italia. Fu –Yu, sapeva che quando quel cocciuto di Yakima si ficcava un'idea nella sua testaccia dura non c'era più posto per altro. Perciò aveva preso questa precauzione, ben sapendo quali idee funeste covasse verso il suo rivale.  


L’avvocato, un cinese residente in Italia prontamente informato, raggiunse la questura dell'Esquilino e assieme ad un agente e a un dirigente fu accompagnato in una stanza dove avevano rinchiuso il suo assistito. Vedendolo per la prima volta, non si aspettava un gigante di tale stampo. «Lei è forse nato all’alba» domandò il legale vedendo l’amuleto di Yakima. «Per quanto ne so i nati all’alba sono fortunati.» soggiunse sorridendo, dando uno sguardo d’intesa al dirigente della polizia.  

«La fortuna aiuta gli audaci.» rispose laconico Yakima. 
«Dipende dalla sorte che gli tocca!» disse a sua volta l’avvocato il quale informò Yakima che si stava occupando di lui e che presto sarebbe stato rilasciato. Avendolo tranquillizzato, lo salutò e uscì dalla stanza parlottando col dirigente della questura. 

Il legale cinese avendo visto l’amuleto e pronunciato con la massima disinvoltura la parola d’ordine, avendone ricevuto per risposta la controparola, aveva adempiuto a ciò che gli era stato richiesto. Ora non restava che contattare il professor Echoswood al castello di Panerula e dirgli quel che gli doveva dire ma sfortunatamente non lo trovò in quanto era dovuto partire urgentemente per il Mozambico. Parlò infine con Frank Truman il quale lo rassicurò dicendogli che avrebbe fatto quel che gli aveva chiesto. 


La sera stessa Yakima fu prelevato dall'avvocato e uscendo dalla questura, nel dirigersi con il suo legale verso una berlina blu notte parcheggiata nei pressi, riconobbe l’inconfondibile rombo di una Harley Davidson che vide sbucare da una viuzza laterale alla cui guida c’era l’imprevedibile professor Truman il quale si fermò ad un passo da lui.  

«Professore!» esclamò sorpreso Yakima. «Come mai qui?» 
«L’ho avvisato io» intervenne il legale «dicendogli di portare i tuoi bagagli.» 
Yakima riconobbe le sue borse sul portapacchi della moto e visto che Frank Truman non riusciva a dire nulla in quanto era visibilmente commosso, non capendo bene cosa stesse accadendo, mise la mano sulla spalla dell’avvocato. «Ma che diavolo significa?» 
Il legale che era d’indole pacifica, senza scomporsi tirò fuori dalla tasca interna della giacca un biglietto aereo che sventolò sotto gli occhi sorpresi del suo imponente connazionale.  «Questo significa che ti sto accompagnando all’aeroporto dove prenderai un volo per Seattle... » 
«Avvocato, sta scherzando?» eruppe lui incredulo. «Mi sta dicendo che debbo tornare in America?» 
«Esatto signore... ordini di Mr. Fu –Yu. Mi ha detto che ha un bisogno urgente della sua presenza per una questione in Africa che la interessa molto da vicino. Così mi è stato riferito e così gli dico. Di più non so’, mi spiace!» 
Yakima si avvicinò a Truman che era rimasto a cavallo della moto. «Penso proprio che debbo salutarti professore! Mi  dispiace... è tutta colpa mia... ma sono certo che ci rincontreremo!» disse amareggiato, accarezzando il capiente serbatoio della Harley Davidson. 

«Certo che ci rincontreremo! Dovrai venirti a prendere la moto che in tua assenza ti attenderà in garage. Penso che in mano tua ringhierà come ai suoi tempi d’oro, amico Yakima! » 


«Che vuoi dire, professore?» 


«Semplicemente che l’Harley Davidson è roba tua!» 


«Grazie amico Frank, farò di tutto per tornare!» Dopo avergli chiesto di salutare l’amico Donald, di cui era al corrente della sua improvvisa partenza, e la signorina Martin, oltre ai rimanenti al castello, si abbracciarono entrambi commossi. Yakima prese i bagagli dal portapacchi e s’infilò con l’avvocato nella berlina che partì immediatamente. 



FINE


Il racconto completo è pubblicato per intero sulla pagina apposita di questo blog.

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