L'amuleto della libertà - racconto sul web

RACCONTO SUL WEB

L’AMULETO DELLA LIBERTA'

Il Castello di Panerula, dimora di nobili di grande fama nel '400 e luogo di trame oscure e delitti eccellenti, si erge vigile e solitario sul cocuzzolo di un colle a meno di un'ora di macchina dalla Capitale. Nei tardi pomeriggi di primavera, dalle sue finestre ad oblò che affacciano sulla vallata, è facile scorgere la sottile linea blu del mare che indora l'orizzonte.

Per il suo punto strategico del territorio tra Roma e Napoli, il castello nacque più come fortezza militare che come residenza nobiliare. Le pareti esterne, spesse oltre tre metri, e tutta la struttura è protetta da una cinta muraria che poggia sulla roccia viva. Di questa prima costruzione ne sono rimaste solo poche mura. Dopo essere stato ceduto ad un parente di papa Bonifacio VIII per la somma di 140 mila fiorini d'oro, e dopo la morte di questi, ordita a quanto sembra dai temibili Borgia, il castello fu confiscato dal nuovo papa Alessandro VI, che lo affidò ai figli Cesare e Lucrezia, la quale vi dimorò per alcuni periodi. Ma altri personaggi storici furono graditi ospiti del castello, come Federico II e Carlo V nel 1536.

Nel corso dei secoli la fortezza subì molti attacchi e quando nel 1798 fu saccheggiata dai soldati di Napoleone, venne trasformata in un carcere.
Ai tempi attuali, il castello, grazie alle volontà testamentarie del suo proprietario, il magnate americano  Luc Brady, è divenuto sede dell' ESI EchosSystemInstitute, una istituzione privata che organizza periodi di studio in tempi di vacanze le cui finalità consentono un maggior scambio d'informazioni e continui confronti tra gli studenti, che diano impulso e vitalità sui temi ambientali. Fu lo stesso Brady a disporre la scritta, scolpita in maniera indelebile sull'arco di volta del portale d'ingresso, che recita: "formare le nuove generazioni, dare loro una coscienza ecologica, affinchè siano in grado, in un futuro imminente, di affrontare le inevitabili calamità che l'uomo, in primis, ha generato". Firmato Luc Brady, controfirmato Donald Echoswood, amico fraterno del benefattore.

Come disposto dallo stesso Brady toccò quindi al suo compagno di università Donald occuparsi della nascita dell'Istituto. Del progetto ne avevano parlato abbondantemente nel corso delle loro serate e sin dall'inizio apparve un'ottima soluzione per educare i giovani ad un contatto più diretto e costruttivo con la natura. Quello che avevano in mente era un progetto di educazione ambientale permanente che, in un periodo epocale, in cui la mano dell'uomo non sembra in grado di lasciare una impronta salutare sul pianeta, servisse a diffondere certi valori.

Adoperandosi con tutta l’energia di cui disponeva e avvalendosi della preziosa collaborazione del professor Truman, un tranquillo americano trapiantato in Italia, assai innamorato dei vigneti della campagna romana e della coriacea signorina Evelyn Martin - una donna forse all'antica, ma tenace come pochi - Echoswood, che gli studenti avevano ribattezzato “il professor Echos", era riuscito a rendere l'ESI un luogo di vacanze studio rispettabile e con un'ottima reputazione.

I primi mesi si pensò alla sistemazione dell'edificio, il quale, per quanto le sue mura avessero resistito alle intemperie nel corso dei secoli, aveva l'impellente necessità d'essere ristrutturato. Andava sistemato l'interno della torre, specie nella parte bassa, dove si era deciso di ricavarne un'accogliente sala lettura; si rese necessario riparare il lato delle mura coronate da merli guelfi parecchio sbeccati; rendere meno pericolante il cammino di ronda... Insomma furono molteplici i lavori di ristrutturazione e di svecchiamento degli allestimenti; fu allestita la sala mensa, la cucina, arredate le stanze dormitorio, creata la biblioteca, l'aula magna, installata la parabolica e aperto una moderna caffetteria dove, tra un impegno e l'altro, sarebbe stato possibile rilassarsi.

Superata questa prima fase, una sera ci si ritrovò tutti attorno ad un tavolo ricordando la prima aula funzionante e i primi studenti: Jean dal Canada, Larry dal Texas, Julio dal Cile, John Keyman da Chicago coi quali nelle disquisizioni serali venivano affrontati i primi importanti e corposi argomenti: africa, povertà, protocollo di Kyoto, rifiuti, acqua, materie prime, guerre, crisi economica, forum di Davos, malattie, sfruttamento di risorse... Ciascuno esprimeva liberamente le proprie opinioni, avanzando critiche, dando suggerimenti e quando le argomentazioni man mano divennero più accademiche, si avvertì l'esigenza di stare costantemente aggiornati, rendendo pertanto inevitabile l'accesso ad Internet, mettendo l'ESI in contatto con la realtà ambientale di tanti paesi diversi.

Ora, nel corso degli "incontri d'estate e d'inverno" in cui l'Istituto svolge la sua vera funzione, il maniero può accogliere un'ottantina di studenti provenienti da ogni parte del mondo. Tra essi ci sono asiatici, australiani, europei, americani e anche una decina di africani, due dei quali ospiti fissi al castello i quali oltre a studiare e tenere in ordine la biblioteca, sapevano rendersi assai utili nei lavori pesanti, prendendosi cura degli orti e del giardino, dando in tal modo una sostanziosa mano al personale di servizio. E sebbene negli ultimi tempi Donald Echoswood, per via della sua indole inquieta avesse preso a girare più per il mondo che occuparsi dell'ESI, l'istituto veniva portato avanti con dedizione, competenza e passione dal professor Truman e dalla signorina Martin, i quali entrambi potettero esprimere liberamente la loro innata predisposizione verso le materie pedagogiche. 

Ogni metà di giugno, in occasione del consueto "incontro d'estate", il castello si rianima più di quanto accade nel corso dell' "incontro d'inverno" che si svolge tra dicembre e gennaio, durante le feste natalizie. Per buona parte degli studenti, ma sicuramente per quasi tutti i giovani del mondo, l’estate è il periodo dell'anno più indicato per stare assieme e divertirsi, standosene beatamente a conversare all'aria aperta. La sessione estiva, che supera di una ventina di giorni quella invernale, sembra riesca a spronare gli studenti che da qualche giorno stanno affluendo al castello, a partecipare più convintamente alla vacanza studio. Normalmente, questa festosa forma di aggregazione é sintomatica del potere dell'amicizia e del rispetto verso il prossimo, finendo quindi con il fortificare i buoni propositi racchiusi nelle loro rigogliose menti.   

Quel giorno l'aula magna era gremita. Tra i ragazzi sembrava prevalere una non ben definita eccitazione dovuta, presumibilmente, alla gioia del rincontrarsi. Non era raro che nel soggiorno estivo nascessero amicizie sincere coltivate nei mesi addietro con l'invio di email,  cartoline o lettere appassionate. Questo, purtuttavia, rientrava nella norma ed era quanto mai improbabile che l’euforia fosse generata da ciò. Si poteva pensare che taluni, essendo stati informati anzitempo della gita al Gran Sasso, volessero mantenere per se la notizia, così avrebbero avuto modo di prenotarsi anzitempo, rientrando nel numero dei posti disponibili nella visita in programma in Abruzzo, dove oltre alle bellezze della natura, avrebbero avuto la ghiotta occasione di visitare l’inaccessibile laboratorio del Cern, sotto 1400 metri di roccia dolomitica, laddove vengono condotti esperimenti che hanno a che fare con la caccia al neutrino nel silenzio cosmico. Ma a quanto pare non era neanche questa la ragione della loro esultanza. Senonché l'elettrizzante interesse doveva avere tutta altra motivazione.
Difatti, sembra che tutto sia nato la sera precedente per bocca di Mike Jones, il quale aveva raccontato quello che gli era capitato una notte di un mese addietro nella sua bella fattoria del Michigan. Il giovane aveva svelato ai suoi compagni che navigando su Internet si era imbattuto casualmente su una notizia che riguardava il professor Echos. D'altronde si sapeva poco di quello che combinava, se non che le sue missioni, spesso all'insegna di contrasti socio economici in terre sottosviluppate, lo portavano, non di rado, a trovarsi coinvolto in situazioni tutt'altro che piacevoli. Ma neanche questa doveva essere la vera motivazione della loro allegria.

L'articolo, apparso sul sito ludekman.com si riferiva all’uranio in Niger: parlava di scorie radioattive, sfruttamento di miniere da parte di un gruppo francese... ma era stata soprattutto la fotografia ad aver attratto la sua attenzione. L'immagine ritraeva il professor Echoswood accanto ad un omone dalla fisionomia orientale, con braccia poderose e un ghigno che avrebbe scoraggiato persino il più incallito dei criminali.
«Che stupido sono stato a non salvare l'immagine!» si rimproverò Jones mortificato. 
«Potevi farlo l'indomani!»  disse qualcuno dal capannello di giovani formatosi attorno a lui.
«Ed è quello che ho fatto! Solo che il giorno successivo non ho più ritrovato l'articolo! » rispose sconsolato Jones, sapendo di averla fatta grossa. « Certo, mi è parso strano che sia stato visibile sul web solo per poche ore!» 
«Non è affatto strano!» proruppe Furio, un toscano fiero e impegnato, il quale con certi argomenti pareva andarci a nozze. «Non sono poche le notizie che corrono sul web e poi spariscono nel nulla. Proprio un anno fa, tanto per restare in argomento, avevo letto di scorie radioattive smaltite illegalmente sotto le rotonde agli incroci del mio paese. Ebbene, quando poi andai su Internet per vedere gli sviluppi della vicenda, mi accorsi che l'articolo era sparito. Strano, pensai!»
«Eh, chissà quante ce ne sono di cose che non vengono mai alla luce perché occultate!» intervenne Margaret, una inglesina piuttosto graziosa, contesa da diversi ragazzi.
«Mi pare di aver letto da qualche parte che, se si mettessero insieme tutti i rifiuti speciali, pericolosi, tossici e non pericolosi prodotti nel nostro Paese, si creerebbe una montagna alta all'incirca come l'Etna» disse come al solito ben informato il giovane Toriello.
«… Si... creando un giro d'affari di svariati miliardi di euro di rifiuti speciali, cioè di produzione industriale, spesso rifiuti tossici » aggiunse altrettanto informato Furio Molinari. 
«Accidenti!» esclamò Maciste, il più giovane tra gli studenti, il cui nome, rapportato alla figura mitologica che lo voleva forte e massiccio, era diventato per tutti uno spasso.   
«E cosa ci sarebbe stato poi di così sconvolgente su quella fotografia?» chiese in tono sarcastico Alain Rulem, un parigino figlio di banchieri, perennemente in vacanza. 
«Be', mi sarebbe piaciuto farvi vedere che specie di gigante c'era accanto al nostro professore» disse il giovane. «Avreste dovuto vederlo! Una stazza fuori del comune, una vera muraglia! Al posto delle mani pareva avesse pale d'acciaio capaci di ridurti in un ammasso di carne tritata in pochi secondi. La sua testa poi era così grande che al confronto i Moai di Rapa Nui avrebbero fatto una figura meschina.»   
«Esagerato!» fu il commento della signorina Martin nel sentire certe amenità. Sebbene non fosse amata dalla maggior parte degli studenti, per via della sua insopportabile pignoleria, di lei si apprezzava la serietà e il notevole impegno profuso nel lavoro e spettava a lei, in occasioni del genere, preoccuparsi di presenziare l'entusiasta congregazione di accoglienza. 
Anche il professor Truman, seduto come era sua consuetudine all'ultimo posto della fila centrale, rise del parere espresso da Jones. Ma la signorina Martin, che ben lo conosceva, sapeva quanto stesse friggendo dalla curiosità di fare la conoscenza del fenomenale personaggio. Tuttavia Truman pensava ad altro e trovava strano che a tempo scaduto non avesse ricevuto notizie dell’amico Donald. In situazioni analoghe ci s'incontrava almeno un paio d'ore prima per definire le formalità con cui veniva aperto ufficialmente "l'incontro d'estate". Eppure, appena tre giorni addietro, era stato proprio lui ad aver dato per certo la sua presenza. Preso dal bisogno di riflettere in tutta pace si alzò dalla sedia e avvicinandosi alla collega le sussurrò qualcosa all'orecchio, per poi uscire dall'aula.

Nel frattempo i ragazzi, i quali sino a quel momento si erano informati tra loro circa la vita che avevano condotto negli ultimi mesi, iniziarono col dare segni d'irrequietudine, e in men che non si dica nella sala cominciò a serpeggiare il malumore.

Chi appariva seriamente preoccupato invece era il giovane africano di origine malgascia, ospite fisso al castello. Truman lo incrociò non appena scese giù dabbasso, uscendo nel cortile adiacente alle cucine. «Ehi Michael! Cos'è quel broncio ?» disse sorridendo, andandogli incontro. 
Michael lo salutò. «Oh, professore! Se quello che ha detto Jones è vero, e se il professor Echos si trova sul serio in Niger… può avere difficoltà per uscire dal paese » disse con aria sconsolata parlando lentamente, poiché soltanto in questo modo rendeva il suo italiano più comprensibile.
« Cosa te lo fa pensare?» chiese Truman accigliato. 
«Be', se l'articolo parlava di uranio... non c'è da stare allegri professore! Al mio paese l'uranio ha sempre attirato attorno a se brutte storie...» 
« Brutte storie! Che vuoi dire Michael?»
« Vede professore! Anche al mio paese ci sono miniere di uranio, oltre che di rame, bauxite, piombo, ferro... Queste risorse però hanno destato l'interesse dei corrotti e dei corruttibili, dei politici, funzionari dello stato, militari, multinazionali, persone senza scrupoli... che, grazie alle loro malefatte hanno reso la vita dei nativi sempre più complicata e difficile»  disse con voce profonda, piuttosto baritonale, esprimendosi alla perfezione.
«Già, é proprio così Michael! Purtroppo stiamo vivendo il tempo dell'avidità! Se si pensa poi che i giacimenti che esistono vanno sempre più scarseggiando, ecco che si capisce perché si creano i presupposti che conducono a situazioni spesso drammatiche... Sei forse preoccupato che il mio amico Donald si sia cacciato in qualche guaio?» disse il docente, guardandolo dritto negli occhi.
«Oh no, professor Truman! Però sa il Niger non è molto diverso dal Madagascar o dal Congo. Anche lì ci sono corruzione, povertà, avidità, violenza, tante brutte cose...»
«Hai ragione!» disse tranquillamente Truman. «Ma ora, non stiamo a pensare a cose che ci fanno stare male. Vedrai, tutto si sistemerà e il nostro amato professore presto sarà tra noi, per cui non starti a preoccupare.» Così detto salutò il giovane e s'incamminò per il giardino riflettendo sulla breve chiacchierata.
In effetti, pensò, di uranio in giro per il mondo ce n'è poco e quello utilizzato proviene quasi esclusivamente dalle vecchie testate nucleari sovietiche, che sta però finendo. Rammentò quanto si era detto in un rotocalco della RAI che si era occupato di argomenti del genere. Si parlava proprio del Niger e di come il governo locale abbia venduto lo sfruttamento delle sue miniere di uranio a società minerarie straniere usando spesso le maniere forti contro tutti coloro che non fossero stati d'accordo. Alla fine però, i risultati di quelle concessioni spesso si traducevano in sfaceli inimmaginabili e conti salati da pagare. Difatti, dopo aver saccheggiato e devastato a loro comodo, quando di uranio non ce n’era più, le grandi multinazionali abbandonavano il sito lasciandosi alle spalle materiale contaminato, malattie e tanta disperazione... Insomma, la solita storia! Erano queste le questioni sulle quali Donald difficilmente avrebbe indietreggiato, pensò Truman rammentando quando si erano conosciuti. Sin da subito aveva intuito che quell'uomo, che a prima vista dava l’idea di un intellettuale colto, altri non fosse che un avventuriero animato da nobili propositi, il quale difficilmente, avrebbe dedicato la vita all'insegnamento. Non perché le sue capacità di farsi comprendere fossero scarse, bensì poiché la sua indole insofferente lo portava ad amare l'avventura, i luoghi sperduti del mondo, i diritti civili, le ingiustizie sociali... tutte realtà che si annidano nell'esistenza umana e l'avvelenano.
D’un tratto, la quiete del luogo fu scossa dal rumore assordante di un clacson che si udiva sempre più vicino. Fatti pochi passi Truman raggiunse il robusto portone realizzato con vecchie travi di quercia e dal piccolo pertugio poté dare un'occhiata all'esterno. Di sopra alcuni ragazzi corsero ad affacciarsi, mentre altri raggiunsero il cammino di ronda. La signorina Martin, presentendo che potesse essere Donald, tirò un sospiro di sollievo e facendosi spazio tra i giovani si trovò un posto in prima fila.
Dal fondo della strada si vide salire un grosso Suv bianco che procedeva suonando ripetutamente il clacson, facendo fuggire al suo passaggio nugoli di uccelli. Tutti, in una sorta di tensione e trepida attesa erano ansiosi di vedere cosa stesse succedendo.

Ancora strombazzando il SUV imboccò il viottolo con andatura più lenta, fermandosi proprio dinnanzi il professor Truman, uscito in quel momento nello spiazzo selciato che fronteggia il castello, il quale rimase praticamente di sasso, allorché dall'abitacolo vide uscirne un omone dalle dimensioni e fattezze impressionanti. Costui indossava una giacca in velluto di colore verde sopra una camicia bianca aperta sul collo, facendo sfoggio di un raffinato panama bianco portato sulla testa disinvoltamente. Sconcertato oltremodo, Truman fece caso che non appena l'omone era sceso dal SUV, il veicolo si era sollevato da terra perlomeno di venti centimetri. Con una espressione di stupore permanente sul viso stette li per li per accennare qualcosa quando dalla portiera posteriore del taxi vide sbucare l’amico Donald, il quale con l'aria più disincantata del mondo gli si rivolse, dicendo: « Ehi Frank, non dirmi che mi davate per disperso ?!»
«Ehilà professore, bentornato! » intonarono gli studenti ad unisono non appena lo riconobbero. Donald alzò la testa e li vide festanti e allegri alle finestre in basso. Li salutò agitando la mano e quando scorse tra loro la fedele Evelyn, le regalò un plateale inchino, esortando tutti a sorridere.
«Che magnifica accoglienza! » disse allorquando Truman gli fu accanto. «Tutto bene Frank ?»  domandò prendendolo sottobraccio. «Vieni, voglio presentarti il mio amico Yakima, un autentico portento della natura!»
«Ah, non ho alcun dubbio!» rispose il collega con una espressione stralunata. 
Yakima, i cui movimenti lenti ma possenti erano seguiti con grande attenzione da tutti, trasse dal portabagagli del Suv dei pesanti borsoni alzandoli come se fossero delle piume. Donald si occupò invece di saldare la corsa e salutare l'autista al quale senza troppi preamboli consigliò di cambiare l'auto, informandolo che un pieno di *bioetanolo per un SUV equivale a sfamare un uomo per un anno intero. Costui, timoroso e ammutolito, prima di congedarsi, volle dare un’ultima occhiata al fenomenale personaggio asiatico che sino a pochi minuti prima era stato seduto dietro di lui, e senza aggiungere altro salì in macchina partendo con una certa sollecitudine per la capitale.
Presentato Yakima al collega, il redivivo Donald fece strada, avviandosi per primo verso l’entrata del maniero. Yakima si era infilato sottobraccio i bagagli, tenendo a tracolla dei pesanti borsoni. Nel superare il portale il colosso cinese si era soffermato ad osservare con interesse il massiccio battiporta a testa di cavallo in ottone, che tanto aveva voluto il compianto Luc Brady, in quanto era l’emblema della sua famiglia.
Oltrepassato il breve cortile, si accomodarono nella sala con il camino, dove vennero raggiunti immediatamente dai ragazzi e da Evelyn Martin, cui Donald dimostrò il suo affetto con un abbraccio sincero e affettuoso, e com’era prevedibile, Yakima si trovò subito accerchiato dall’entusiasta raggruppamento, la cui intenzione era sapere tutto su di lui cominciando col porgli una serie di domande una dietro l'altra. Ma lui era un tipo di poche parole e difficilmente avrebbe risposto ai loro quesiti. Entrambi i due colleghi fondatori sorrisero nel vedere l'interesse che stava suscitando e Frank chiese all’amico dove lo avesse incontrato. Donald, che in un cuor suo moriva dalla voglia di raccontare come lo avesse conosciuto, con un colpetto di tosse chiese l'attenzione,  prendendo la parola.
«Vi dirò io qualcosa di lui» disse nel chiacchiericcio che andava smorzandosi, ben sapendo che i giovani ci vanno a nozze con le storie che escono fuori dalla normalità. Tutti si ammutolirono e ciascuno si accomodò come meglio poté.
«Ebbene, se non fosse stato per il qui presente Yakima, probabilmente ora non sarei qui a parlare con voi» soggiunse con voce pacata, posandogli la mano sulla  possente spalla, seduto, non proprio comodamente, sulla poltrona accanto alla sua. «La prima volta che l'ho visto è accaduto in un pub malfamato, in una delle tante strade sterrate di Mombasa in Kenya, dove ero entrato per chiedere soltanto un'informazione. Era attorniato da un gruppo di cinesi malintenzionati coi quali stava discutendo piuttosto animatamente. Alcuni di loro però erano armati di pistola e coltello e stavano facendo di tutto per catturarlo e siccome fuori in strada avevo la jeep in noleggio d'appena dieci minuti, intuendo che quelli non avevano alcuna intenzione di desistere...  emisi un fischio acuto e prolungato; lui si voltò e gli feci cenno di seguirmi. Così, dopo essersi preoccupato di stenderne un paio a suon di sberle, corremmo fuori in tutta fretta, spiccando entrambi un salto sulla jeep e dato che avevo lasciato il motore acceso potei partire a razzo, senza dare a quella banda di fanatici il tempo di realizzare quale direzione avessi preso. Per fortuna, quella volta tutto filò liscio!»
Nel salone era calato un silenzio carico di tensione e tutti ascoltavano con attenzione il racconto del professore con una espressione ricca di pathos. Ma nulla sfuggiva loro circa Yakima, il quale pareva contemplare lo spettacolo della natura espresso in un dipinto ritraente il sole al tramonto sul mare appeso alla parete a lui di fronte. Ai ragazzi rimase impresso il suo sguardo fermo e profondo, che aveva un che di magnetico.
Dopo aver bevuto del tè freddo, servitogli da un raggiante Michael, Donald riprese a raccontare.
«Yakima fa parte dell'etnia Mulao e proviene da una contea situata nella regione autonoma di Guangx Zhuang, nel sud della Cina. L'etnia Mulao è una minoranza etnica che abita principalmente nelle zone montane dedicandosi prevalentemente all'agricoltura... Ora, per un fatto che io non conosco e non ho mai voluto insistere con lui per saperne di più, mi sono sentito in dovere di aiutarlo, come lui in seguito ha fatto con me in Niger. Questa ragazzi, è una scelta mia personale, poiché se lo conosceste come ho avuto modo di conoscerlo io… capireste che una persona di tale levatura non potrebbe nuocere senza che lo si costringa a farlo. Del resto, quello che ho fatto lo avrei fatto per chiunque si fosse trovato in difficoltà, come sono assolutamente certo avrebbe fatto lui. Dico bene mon amì ? » concluse, dandogli una leggera pacca sulla spalla.
Ma Yakima era bello che volato nel mondo dei sogni e lo si poteva capire  sentendolo ronfare. «Bene, mi pare di capire che il nostro gradito ospite abbisogna starsene in santa pace… e noi ora lo lasceremo tranquillo !» disse Donald tirandosi su, mentre Truman e la signorina Martin esortavano i ragazzi ad uscire. «D’altronde, con tutti i chilometri che abbiamo macinato, trovo del tutto normale che un colosso del suo stampo possa sentire l'esigenza di riposare. E' umano, accidenti!» soggiunse, lasciando la sala del camino.

L'indomani incontrandosi in refettorio di buon'ora, tutti i commenti vertevano sullo stesso argomento. Sebbene si fossero tranquillizzati per il ritorno del professore, gli studenti si ritrovarono concordi nel giudicare Yakima da loro studiato, visionato e radiografato la sera precedente, una creatura non comune. A molti non era passato inosservato che sotto quella montagna di nervi e muscoli potesse celarsi una persona dal temperamento mite e con una carica interiore straordinaria. Il fatto di essere poi un tipo taciturno ma vigile e accorto allo stesso tempo, fu motivo di un ulteriore apprezzamento. Tuttavia, il fulcro centrale del loro discorrere protrattasi per buona parte della notte, era racchiuso in quella sorta di mistero che aleggiava attorno all'amuleto che egli portava celato sotto la camicia.
«Per me deve essere fatto con l'ossidiana nera» suggerì Margaret che teneva a casa un talismano a forma di Buddha dello stesso materiale.
« Che roba è ? » sbottò Maciste alle prese con un carica batterie che non voleva saperne di funzionare.
«E’ una roccia eruttiva formata quasi interamente da rocce di materie vetrose...» intervenne da par suo Furio Molinari sorseggiando un tè.
«Ben detto! Un vetro vulcanico formato grazie al velocissimo raffreddamento della lava.» aggiunse da grande appassionato di geologia Alain Rulem sistemandosi la sciarpa di seta attorno al collo. 
«Dalle mie parti nei tempi antichi, certe tribù indiane usavano l'ossidiana nera per farne coltelli, punte di lance e frecce » annotò con orgoglio il taciturno Alden, originario dell’Arizona e fiero conservatore delle sue radici.
«Accidenti, non riesco proprio a immaginare a cosa potrebbe assomigliare quel talismano !» esclamò insofferente Aristovoulos Doukas, un greco dell'isola di Mykonos il cui interesse per la crescita dei livelli dei mari causato dall'innalzamento della temperatura, lo aveva indotto a partecipare al soggiorno estivo.
Ebbene, da quanto si era saputo pare si debba proprio all’amuleto che Yakima teneva appeso al petto se a Echoswood fu concesso uno speciale salvacondotto che gli aveva consentito di lasciare sano e salvo il Niger! Questo lo si era appreso da Giovanni Toriello, il golden boy di Fabriano che la sera precedente, prima di andarsi a coricare, aveva udito casualmente una conversazione in cui il professor Echos svelava all'amico Truman come fosse uscito indenne da quella situazione.
«Sembra che Yakima prima della partenza dal Niger si sia incontrato con qualcuno in una stanzetta riservata dell'aeroporto internazionale di Niamey, in Niger e che gli sia bastato mostrare l'amuleto affinché questi agisse come una sorta di password, aprendo loro porte insperate.» disse concitato piluccando uno a uno i chicchi d'uva di un grappolo davanti a se, lasciando tutti ammutoliti.
«Questa poi!» esclamò sconcertato Alain, il parigino. «Se debbo dirla come la penso, non potrei che... »
«SSS...» fece Toriello zittendolo di colpo allorquando vide entrare nella sala mensa il professor Truman e la signorina Martin.
«Ragazzi, debbo comunicarvi una variazione del programma» furono le prime parole di quest’ultima, chiamando a raccolta i giovani. «Purtroppo la prevista visita al laboratorio del Cern del Gran Sasso, che avremmo dovuto fare... è saltata per motivi del tutto indipendenti da noi.» disse coincisa e formale, come era suo solito.
«Eh no!» si lamentò qualcuno. 
«Niente più visita al Cern! » reagì qualcun altro.
«Però non vale! » si accodò sconsolato Furio Molinari e sull'identica solfa seguirono tutti gli altri... 
Ora il tempo che restava bisognava utilizzarlo in altro modo. Così, a parte qualche viaggetto nella capitale, accolto sempre con gioia dai convenuti, le giornate si sarebbero svolte in aula visionando filmati, documentari, promuovendo forum su Internet, argomentando su desertificazione, energie rinnovabili, mutamenti climatici... Senonché l'ingresso in scena di Yakima, in un certo senso, aveva migliorato la loro prospettiva, mentre Truman, preso dal forte senso di responsabilità che lo caratterizzava o forse dal desiderio di non lasciarli del tutto delusi, fece loro una proposta, invitandoli nella sua casa giù a valle la domenica successiva.
L’invito fu ben accolto; sarebbe stata l’occasione per dare un’occhiata alla segreta cantina di cui il professor Truman andava molto fiero. Si mormorava che grazie ad Internet fosse entrato in possesso d'una antica ricetta etrusca che insegnava l'arte di produrre il vino, anche se poi ogni qual volta gli si chiedevano delucidazioni, per risposta ne ricevevano un sorriso sornione.
Il resto della giornata si svolse in aula in un'interessante incontro con il ritrovato professor Echos. Non accadeva da mesi e molti dei giovani non avevano mai avuto modo d’incontrarlo. Il che fu per lui un'occasione da non perdere per intavolare subito con loro un argomento scottante. 
« Come credo alcuni di voi già sappiano, di recente è stato scoperto qualcosa che può essere definito benissimo come il settimo continente della Terra.» esordì spostando lentamente lo sguardo sui presenti che si erano accomodati ai tavolini.
«Il settimo continente!? E dove si trova?» domandò eccitato Larry dalla terza fila.
«E' stato localizzato a 500 miglia al largo della California, nell'Oceano Pacifico e si pensa possa essere grande due volte il Texas o, come pensano alcuni, addirittura quanto gli Stati Uniti, cioè 10 milioni di chilometri quadrati.» disse sollevando il righello sulla grande carta geografica. 
«Caspita, più grande del Brasile!» esclamò Furio Molinari, assai interessato all'argomento. 
«L'ha scoperto per caso un certo Charles Moore una dozzina d'anni fa mentre veleggiava al largo del Pacifico nord orientale seguendo una rotta di solito evitata dai pescatori per la scarsa presenza di vita marina» svelò il professore voltandosi verso l'aula. «In verità, se ne conosceva l'esistenza sin dagli anni 50, anche se poi a Moore va il merito, nell'era del web, di averne parlato per primo. Non pensiate però che sia un continente come gli altri. Magari lo fosse!»  soggiunse, amaramente. « Si tratta invece di una zona amorfa, senza contorni distinti, che si sposta a seconda della stagione, fra i 23 e i 37 gradi di latitudine nord, per poi curvare verso sud e andare incontro a El Niño, il fenomeno meteorologico che nasce nelle acque del Pacifico tropicale e che ha importanti conseguenze per il clima di tutto il pianeta. Ma di questo ne parleremo in seguito. »  precisò, tornando alla mappa, indicando con il righello la zona attorno all'equatore.
«Un continente che si muove, forte !» esclamò incredulo Toriello. 
« Esatto, un continente che si muove! Solo che invece di essere un pezzo di terraferma solido e compatto, su cui ci si può camminare sopra per quanto la superficie è diventata uniforme, si tratta di un enorme ammasso di rifiuti nota come Great Pacific Garbage Patch, una vera isola di plastica, tenuta su da un gioco di correnti vorticanti che si muovono tranquillamente in questa zona del Pacifico che ho cerchiato in rosso.» disse mostrandola sulla carta. «Moore del Pacific Trash Vortex ha svelato al mondo la predominanza di plastica, ma questo vortice ha origini naturali, solo che sino a qualche decennio fa si trattava esclusivamente di un agglomerato di tronchi, erbe, alghe... Sembra che questo punto funga da accumulatore dei residui della civilizzazione» spiegò, indicando con il righello. «Ebbene, qui convogliano i rifiuti sintetici di mezzo mondo trasportati dal North Pacific.
Subtropical Gyre, una enorme massa di aria calda che si forma all'Equatore e che discende lenta a spirale in senso orario.» 
«E dove vanno a finire questi rifiuti ?» chiese impaziente Omar, un egiziano mite e tranquillo, ospite fisso al castello come Michael. 
«Be', restano lì fino a che non sopraggiunge una tempesta a smuovere le acque e allora i rifiuti vagano nell'oceano, arrivando sulle coste delle Hawaii, dove anche se si ripuliscono le spiagge, la plastica continua ad arrivare. Sembra che qualunque cosa galleggi, non importa da quale parte dell'oceano provenga, dopo un lento peregrinare nelle acque per una dozzina e più di anni... concluda qui il suo viaggio.» spiegò Echoswood, rendendosi conto di quanto l'argomento li avesse affascinati. 
« Accidenti!» fece sbalordito Toriello con gli occhi puntati sulla carta geografica.   
«E non si può sapere da dove arriva tutta questa plastica ? » domandò Pamela, figlia di un possidente newyorkese a cui piaceva trascorrere l'estate in Italia.
«In effetti, tutta questa plastica ha inizio con un percorso a terra, prosegue scendendo per fiumi e ruscelli, sfociando poi in mare aperto in una massa formata da pezzi riconoscibili ma soprattutto da frammenti infinitesimali, che non scompaiono ma diventano sempre più piccoli. Milioni di tonnellate che il mare ha inghiottito ma mai ingerito!».
«Ma non è possibile conoscere l'ampiezza reale di quest'isola di plastica? » chiese Tobia, un giovane dall'aspetto paffuto e colorito, seduto due posti dietro Toriello.
«Purtroppo no! Pare sia impossibile intercettare dai satelliti, poi è lontano dalle rotte di navigazione e galleggia poco sotto la superficie delle acque. Anzi, secondo il capitano Mooore, il peggio deve ancora essere scoperto! Perciò ora si è messo in testa di capire l'esatta estensione e la concentrazione di queste aree mai esplorate prima. Va rilevato che la quantità di plastica è sei volte superiore a quella del plancton... Il problema sta nel fatto che la maggior parte dei detriti marini sono biodegradabili... » proseguì assorto passeggiando tra i banchi.
«La plastica, al contrario, si disintegra nel mare in piccolissimi frammenti, alcuni dei quali raggiungono dimensioni di singole molecole che finiscono inevitabilmente nello stomaco di molluschi, pesci e volatili che la scambiano per cibo e conseguentemente entra nel ciclo alimentare con devastanti conseguenze.»
«Allucinante!» apostrofò Margaret rabbrividita. 
«Già proprio così! Eppure in questa vasta zona di mare» disse, tornando alla carta geografica «confluisce di tutto: spazzolini da denti, bottiglie, accendini, siringhe, guanti, posaceneri, pompe per bicicletta, attrezzi giapponesi per allevare le ostriche, buste cinesi, cotton fioc, ombrelli indiani... Nello stomaco di un albatros è stato trovato persino un pezzo di plastica datato 1940...  Senza contare che ci sono altre cose che entrano nel circolo alimentare più facilmente della plastica ma non lo vedi.»
«Fortuna che rimane tutto in superficie. » replicò Tobia, che ascoltava la lezione con vivo interesse.
«Be', questo è da vedere! E lo si capirà soltanto quando ci sarà un sottomarino robotico capace di raggiungere le alte profondità, come ad esempio i dieci chilometri della Fossa delle Marianne nell'Oceano Pacifico, il luogo più remoto e inaccessibile del pianeta.»
«E' disumano, professore!» intervenne ancora una volta Pamela con un senso di disgusto dipinto sul viso. 
«Pensate, nel corso dell'esplorazione di questa enorme zuppa di plastica, che sembra mescolata da un invisibile cucchiaione, il gruppo di ricerca fondato da Moore, il quale come noi si prefigge di risvegliare le coscienze, ha potuto appurare che in mare restano solo frammenti verdi, bianchi, blu e neri, ma non quelli rossi, gialli e arancio. Si ipotizza che siano stati scelti da animali la cui alimentazione si basa sul colore.» svelò il professore avvertendo stupore e sbalordimento in tutti. 
«Pazzesco, è un problema molto serio!» osservò Maciste sbigottito. 
«L'inquinamento plastico negli oceani è un argomento enorme che richiederebbe un'azione immediata» aggiunse Pamela sdegnata. 
«Eh sì, la plastica è diventata una emergenza planetaria!» ribadì il professore tornando alla sua postazione.  «E sebbene la tecnologia offra la speranza di uno smaltimento più illuminato, il tempo stringe e questa enorme isola di plastica, la quale rappresenta a meraviglia la nostra era consumistica, è destinata a raddoppiare le sue dimensioni entro il 2030, ed allora...» 
 «... Allora saremo tutti sommersi dai rifiuti!» concluse Pamela con profonda tristezza.

Le prime notti di Yakima furono alquanto movimentate. A lui era stata riservata una stanza adiacente l'alloggio che il professor Echoswood aveva a disposizione nella torre. Il problema maggiore che dovette affrontare fu la scomodità di un letto di dimensioni troppo piccole per lui che lo costrinse a stare seduto su una poltroncina in verità, anch'essa tutto altro che comoda! Fortunatamente, grazie all'installazione della parabola satellitare, gli fu possibile seguire alla CNN le notizie provenienti dalla Cina, con le immagini dei disordini a Urumqi, capitale della regione autonoma dello Xinjiang, una vasta zona montuosa e desertica della Cina nord occidentale ricca di risorse naturali e abitata in larga parte dalla popolazione uighura. Per il governo cinese uno dei principali grattacapi all'interno dei suoi confini era rappresentato appunto dalla popolazione uighura di etnia musulmana, la quale si sarebbe aspettata magari un maggior riguardo per la loro cultura e la loro religione. Per molti dei suoi compatrioti all'estero, quello che stava accadendo a Urumqi , era solo una campagna del governo centrale per allineare tutte le religioni con la visione della cultura cinese del partito comunista. Per il futuro si sperava nell'introduzione di leggi e norme che garantissero più tutela alle oltre cinquanta diverse etnie del Paese. Dopo anni di forzato esilio all’estero, sapeva che la sua madrepatria non era certo un esempio da seguire riguardo l'applicazione dei diritti umani.
Fino a cinque, sei anni prima della sua inevitabile fuga all’estero, andava in giro tra i villaggi della regione in cui era nato e spesso gli capitava di trovare appese alle pareti delle tante casupole di legno sparse per le montagne, vecchie fotografie recanti l'immagine simbolo di piazza Tiananmen, quella del 1989 che fece il giro del mondo, dove si vede il giovane che sembra voglia fermare i carri armati. Tiananmen, peraltro vuol dire Porta della pace celeste. Una contraddizione, ovviamente! E sebbene il gruppo etnico a cui apparteneva, che contava si e no qualche centinaio di migliaia di individui, non avesse avuto attriti col governo centrale, egli era consapevole che presto o tardi anche la sua etnia sarebbe scesa  nelle piazze a manifestare. Quasi certamente in quel caso, per lui sarebbe stata l'occasione di rientrare nel suo Paese e dare una mano alla causa, senza doversi preoccupare di quello che gli sarebbe potuto capitare se fosse stato scoperto. In Cina per il crimine che lui aveva commesso era prevista la condanna a morte. Riuscì a dirottare i suoi pensieri altrove. Tirandosi su dal letto dove si era accasciato dall'alba, si accostò alla finestra a oblò, restando ad osservare ammirato la verde vallata sottostante. Vestitosi, si sentì pronto per trascorrere la giornata all'insegna dell’amicizia e della fratellanza nella casa di campagna del professor Truman, una persona che a lui piaceva molto.
Era una domenica di giugno calda ma ventilata quando nella casa di campagna di Frank Truman si trovarono tutti riuniti attorno alla bella tavolata organizzata all’aria aperta. Per i giovani che erano presenti si rivelò essere l’occasione giusta per organizzare una partita a pallone nello spiazzo adocchiato davanti al capannone industriale adibito a cantina vinicola... cui qualche visitina era già stata messa in conto. Entusiasti all'idea, cominciarono sin da subito a formare le due squadre. Seduti ad una estremità del grande tavolo in legno massiccio si erano piazzati il padrone di casa, il professor Echos, la signorina Martin e Yakima il quale, come se avesse voluto soddisfare la curiosità dei giovani, dei quali sin dalla prima sera si era accorto dell’interesse mostrato per il suo amuleto, si era messo a bella posta una maglietta chiara e per chi avesse potuto dare una sbirciata sotto la giacca, avrebbe visto finalmente l’amuleto. Si può immaginare quale trambusto si creò tra una portata e l’altra, di cui si fecero carico due donne che lavoravano a cottimo presso il professor Truman, il quale essendo un gran tifoso della Ferrari, aveva fatto posizionare la televisione sopra una grande botte di rovere per non perdersi il Gran Premio di Gran Bretagna che avrebbero trasmesso di lì a breve.
Uno tra i primi ad avventurarsi dalle parti di Yakima fu il piccolo Maciste cui stavolta riuscì a emulare più convintamente l’audacia del personaggio mitologico di cui portava l’impegnativo nome. Avvicinandosi all’estremità del tavolo con la scusa di dare una mano alle massaie che andavano e venivano dalla cucina, l’intrepido guaglione scivolò difilato alle spalle di Yakima, il quale stava seguendo impassibilmente la conversazione tra i due professori. Facendo finta d’inciampare sul terreno Maciste si piegò in avanti quel tanto che gli bastava per scorgere l’amuleto in ossidiana nera sulla maglietta chiara che Yakima indossava sotto la giacca. Tuttavia, gli sarebbe occorsa un’altra occhiata per capire che cosa vi fosse impresso sopra.
«Secondo una ricerca effettuata dall'Università di Milano i vini provenienti dai terreni di origine vulcanica sono caratterizzati da ampli e complessi profumi, oltre che da una notevole struttura circoscritta da una spiccata mineralità sia all'olfatto che al sapore» diceva Truman al collega, parlando della sua materia preferita.
«Allora è per questo che da noi il vino è di livello superiore » precisò Donald, il quale ascoltava sempre con vivo interesse le erudite argomentazioni enologiche del suo compassato collega.
«Difatti, l'Italia è l'unico paese europeo i cui terreni vulcanici vanno dall'estremo sud al nord conferendo ai vini particolari e uniche caratteristiche legate alla peculiarità sia dei terreni che dei vitigni.» riprese Truman, facendo un sol boccone d’una forchettata di gustose fettuccine al ragù.
Nel mentre Maciste imperterrito continuava la sua missione restando nei paraggi, aspettando l’occasione propizia per avvicinarsi nuovamente al gigante cinese, il quale se ne stava sornione e imperturbabile con l'accenno di un sorriso sul volto, a seguire, senza farsi accorgere, le peripezie del giovane napoletano.
Truman con un calice in mano continuava a disquisire sul metodo di produzione del vino bianco. «I vini bianchi sono più facili ad essere soggetti ad alterazioni microbiche e a fermentazione anomale.» disse degustando il vino come se fosse stata la bevanda degli dei. «Per questo la fermentazione del mosto deve avvenire fuori dal contatto delle bucce» soggiunse afferrando il telecomando, accendendo la TV.
Poco più in là la signorina Martin volse l’attenzione sull’impassibile Yakima.  «A te piace il vino?» gli chiese in tono amichevole.
 «Vino buono.» rispose, indicando con il grosso indice il bicchiere davanti a lui. «Non mi dai l’idea d’essere un grosso bevitore.» asserì Evelyn notando il suo bicchiere colmo.
«Io lavorato wineroom, united states... tante botti grandi, gente mangiare... » 
«Ah!»  disse stupito Frank, interrompendo immediatamente quanto stava dicendo. «Di quale parte degli Stati Uniti ?» domandò incuriosito dalla singolare notizia.
« Columbia Valley, Stato Washington... many firms in Yakima Valley...»
«Yakima Valley ! » esclamò Truman sempre più sconcertato.
«Yes, cultivare uva like Chardonnay, Merlot, Cabernet Sauvignon...» disse Yakima pronunciando il francese simpaticamente.
«Però che bella varietà!» fece Frank. «Per questo che ti chiami Yakima?»
« Esatto!» s’inserì Donald, raccontando di come il suo amico fosse in possesso di un nome che non aveva niente di cinese ma che lui volle conservare in ricordo dei cantinieri della Yakima Valley che glielo avevano affibbiato. 
«Vino good Yakima Valley.» ribadì, destreggiandosi goffamente nell’attorcigliare le fettuccine con la forchetta, la quale di colpo gli scivolò di mano.  Maciste, li nei pressi in stato di allerta, riuscì a pigliarla al volo prima che cadesse in terra. «Appena in tempo!» disse, con l’espressione sveglia e intelligente, restituendogliela, indirizzando un’occhiata veloce sotto la giacca.
D'un tratto un colpo di vento fece volare il cappello di Yakima che un giovane Jack Russell, schizzato fuori all’improvviso da sotto il tavolo rincorse speditamente. 
«Accidenti Frank, ti sei dimenticato di chiudere le finestre! » disse scherzosamente Echoswood dandogli una leggera pacca sulla spalla. 
Yakima si alzò ma risedette di nuovo allorquando vide il cane ritornare scodinzolando con il cappello in bocca. «Ottimo panama!» disse Truman, togliendolo di bocca a Sugar a cui diede una carezza. «Il meglio dei cappelli di paglia realizzati a mano» soggiunse, passandovi la mano sopra. «La sua celebrità lo deve al presidente americano Theodore Roosvelt quando lo indossò all’inaugurazione del canale di Panama nel 1906.»
«Ottimo Frank, come al solito non ti smentisci mai!» intervenne Donald prendendo il cappello dalle sue mani. «Infatti è un modello Montecristi realizzato in Ecuador ed è intessuto a mano con foglie disseccate di una palma nana» disse rigirando il panama tra le punte delle dita. Lo aveva acquistato lui stesso in un elegante negozio del centro di Nairobi per donarlo a Yakima, ma questo evitò di dirlo.
Sullo schermo comparvero le immagini in diretta dal circuito di Silverstone che mostravano le vetture in pista nel giro di ricognizione e sia Frank che Donald si accomodarono su due poltroncine meglio posizionate davanti al televisore. Evelyn Martin, che del Gran Premio non voleva saperne, si avviò per fare due passi nei dintorni mentre Yakima, che da un po’ stava osservando con molto interesse una vecchia Harley Davindson sul fondo del piazzale, preferì andare a vederla più da vicino. Più tardi seppe che era un prezioso cimelio degli anni 60 ancora funzionante e che Truman adoperava solo per brevi tragitti.
D’improvviso, il cielo si rabbuiò e un forte vento si abbatté furioso su tutta la campagna. I ragazzi che stavano preparandosi per la partita di pallone corsero a ripararsi sotto la tettoia di un magazzino. Si spense pure la televisione e il filo svolazzante dell’antenna cominciò a ondeggiare violentemente. Senza starci a pensare troppo Echoswood ordinò ai ragazzi di salire subito sul pullman e salutato Truman, al quale aveva consigliato di rintanarsi in casa, salì assieme a Yakim sull’autobus e partirono alla volta del castello.

Durante il viaggio di ritorno dalla casa di campagna di Truman, il tempo subì un peggioramento e ciò, dopo aver dovuto rinunciare con enorme dispiacere alla partita programmata, rese più eccitante e avventuroso il prosieguo della giornata. Ondate di acqua si rovesciavano sulla strada nel tratto in salita che conduceva al castello e il pulman dovette rallentare notevolmente l’andatura per evitare qualsivoglia incidente.  I ragazzi, con gli occhi puntati sulla strada, seguivano con apprensione il procedere del viaggio, che in quelle condizioni pareva non finire mai.  Così non si ebbe voglia di pensare all'amuleto o a quello che era riuscito a vedere Maciste finché non si arrivò a destinazione. Se ne parlò in camerata dopo cena, tutti riuniti attorno all'imprevedibile guaglione, il quale se ne stava con il volto compiaciuto sdraiato sul letto con le braccia sotto la testa.
«Dai raccontaci!» lo pregò Margaret sedendosi sul bordo della branda.
« Ce l’hai fatta? » domandò Furio Molinari ritto ai piedi del letto, osservandolo con aria incerta.
«E bravo il nostro prode napoletano! Dai, ragguagliaci!» disse non si sa se con sarcasmo o meno Alain Rulem arruffandogli i capelli.
«Sei riuscito a scoprire qualcosa?» domandò ansiosa Pamela, sedendosi di fronte a Margaret.

«Siete curiosi, eh? Non credevate che avrei potuto farcela, vero?» furono le sue prime parole tirandosi su, appoggiandosi con la schiena alla spalliera.
« Ma che dici !» «Che vai a pensare.»
« Facevamo tutti il tifo per te.»
«Certo, la trovata della forchetta è stata geniale!» «Dai, non ti far pregare! Tutti abbiamo assistito alle tue performancescon tensione..La trovata della forchetta poi è stata fenomenale»
«Su dai, non ti far pregare! Tutti abbiamo assistito alle tue performances con la tensione addosso. Qualcosa devi pure aver visto!» avanzò Pamela, la più curiosa.
«E sta bene, ve lo dirò! Insomma, è andata che soltanto quando sono riuscito a prendere al volo la forchetta caduta dalla mano di Yakima che rialzandomi sono riuscito a vedere  l'amuleto.»  disse tutto d'un fiato passandosi la mano sui capelli.
«Ci siamo tanto scervellati per capire come poteva esser fatto... quando invece mi sono trovato davanti semplicemente qualcosa a cui mai avrei pensato...» disse con una certa enfasi, osservandoli uno per uno.
«Che cosa hai visto? » chiese ansiosa Margaret.
«Ebbene, non ci credereste ma sull'ossidiana ho visto impresso un gallo.»
«Un gallo! » fecero tutti all'unisono.
« Si, un normale gallo da cortile. Stava davanti a un albero coi rami all'insù e alla base mi è parso di scorgere un drago, un piccolo drago celeste o verde, non saprei...»
«Caspita!» esclamò Toriello appena sopraggiunto.
«Ma sei sicuro?» domandò Margaret, curiosa di vedere come veniva rappresentato un gallo sulla pietra.
« Sentite! » riprese Maciste, intendendo proseguire. «Yakima indossava una maglietta chiara, tant'e che il gallo sullo sfondo nero l’ho potuto vedere benissimo! E per il drago che ho qualche dubbio. Poteva anche essere un sigillo di calligrafia cinese, una iscrizione in miniatura, non saprei... » precisò scendendo dalla branda, fendendo il capannello attorno a se, dirigendosi frettolosamente

« Be’, il drago celeste potrebbe essere una gemma, che so un’acquamarina o una giada. » puntualizzò Pamela che s'intendeva di cristalloterapia.
«Ma ditemi voi come è possibile che una pietra nera con su scolpito un gallo possa bastare per far uscire il professor Echos dal Niger » disse scettico Furio Molinari che dalle facce perplesse di alcuni, parve non essere il solo a pensarla in quel modo.
Andò a finire che i continui quesiti e i nascenti dubbi non fecero che alimentare la curiosità quasi morbosa dei ragazzi, i quali si accordarono d'indagare sul web circa la simbologia del gallo. Questa era la parola d'ordine che cominciò a circolare dall'indomani.

Il mattino del giorno successivo una notizia giunta dal Mozambico scosse profondamente il professor Echos. Era accaduto che Didior, l’uomo tuttofare del suo amico Cornelliusson, in preda ad una concitazione preoccupante, gli aveva riferito che il figlio del suo padrone era rimasto ucciso in una rissa per dei contrasti sorti sul suo terreno.
«Quello che sta accadendo in Africa, caro Donald, è il dilagare del land grabbing» disse trafelato Mr. Atkinson del NOGA, una ogm australiana che si batte per la salvaguardia dell'agricoltura, il quale aveva contattato Donald subito dopo la telefonata di Didior, in quanto Cornelliuson era amico di entrambi, come lo era pure di Yakima.
Dopo aver ricordato con profonda tristezza alcuni momenti trascorsi in compagnia dell’amico mozambicano, dissertarono brevemente sul fenomeno del land grabbing o land rush, che dir si voglia! « L'attuale ondata di acquisizioni di terreni si sta svolgendo in contesti in cui molte persone non hanno diritti certi sulla terra in cui vivono, restando quindi vulnerabili all'espropriazione » disse Mr Atkinsons al telefono da un bar della zona portuale di Quelimane, in Mozambico. « Di questi tempi l'acquisto di milioni di acri di terra viene fatto soprattutto da arabi e cinesi che stanno giungendo a frotte e la Cina è il principale partner commerciale del Mozambico. Ebbene, questi paesi neocolonialisti hanno petrolio ma non hanno terre agricole. Vanno nei paesi poveri e comprano o affittano grandi estensioni di terreno in cui si mettono a produrre quello che scarseggia a casa loro. » disse con una nota di amarezza nel tono della voce.

«Un'epoca di economia sfrenata la nostra!» venne spontaneo dire a Echoswood, chiuso nel suo studiolo.
«Proprio così Donald! Senza contare che questo continuo assedio si porta dietro inoltre imprese, fondi di investimento e governi ed ora anche investitori e fondi pensione stanno procurandosi il terreno di paesi e di comunità vulnerabili, le quali hanno estremamente bisogno di produrre cibo per loro stessi... Qualcosa del genere deve essere quello accaduti al nostro comune amico. Può darsi che suo figlio sia rimasto invischiato in una qualche provocazione, secondo me congegnata ad arte, che l’abbia portato a scontrarsi fisicamente con dei facinorosi, dai
quali, a quanto sembra, è stato maciullato a colpi di bastoni.»
«Vili e bastardi, ecco come vanno chiamati costoro! E non si sa nulla di queste persone?»
«In questo momento non sono in possesso di altre informazioni, ma ti farò sapere qualcosa non appena avrò notizie più precise... Adesso scusami ma debbo salutarti... A risentirci caro professore!» concluse, chiudendo la comunicazione.
Rimasto con la cornetta in mano Donald non seppe se dare o meno la brutta notizia a Yakima che aveva conosciuto Cornelliuson assieme a lui. Sapendo della sua abitudine di svegliarsi allo spuntare dell’alba, non se la sentiva di importunarlo a quella ora in cui magari, come era accaduto altre volte, si era ricoricato per un’altra oretta di sonno. Decise di dirglielo quando lo avrebbe visto.
Tornò coi pensieri al suo amico mozambicano che aveva perso il figlio in maniera così crudele. Da quanto gli risultava Cornelliusson non era mai stato ricco, ne disponeva di capitali, in quanto le banche non potevano disporre delle sue terre come garanzia, non esistendo alcun rogito terriero in merito. Nel suo paese in palio c’erano molti terreni la cui gran parte non erano terreni venduti ma piuttosto contratti di locazione a scadenza, che alla fine lasciano le popolazioni locali con i suoli degradati, gli acquiferi sfruttati e il reddito diminuito. Da ciò si creano sempre situazioni esplosive e la cosa curiosa, che poi tanto curiosa non è, pensò, è la Banca Mondiale sta aiutando le imprese e gli investitori internazionali ad accaparrarsi i terreni a buon mercato.

In quel particolare giorno anche Truman si soffermò in aula sulla questione del land grabbing. Dopo aver ricordato il figlio di Cornelliuson, rimasto ucciso in una rissa per una questione riguardante appunto la terra della sua famiglia, affrontò l’argomento prendendolo di petto.

«Violazione dei diritti umani, mancanza di assenso libero e preventivo e poi contratti iniqui, affitti irrisori, vendita di terreni in cambio di promesse di posti di lavoro o chissà cos’altro e nuove infrastrutture ma anche assenza di studi adeguati sull'impatto ambientale...» disse numerando i punti con tutte e cinque le dita della mano. «Dietro l'accaparramento di terre che sta prendendo forma in tutto il mondo... signori, c'è tutto questo.» disse, dirigendo il righello sul cartellone appeso alla parete che mostrava grafici e diagrammi con raffigurazioni diverse. «Spinti dagli alti prezzi dei generi alimentari, dalle materie prime e dall’alimentazione per il bestiame, dai bassi rendimenti dei mercati finanziari assediati e dall'aumento della domanda degli agrocarburanti, il numero di aziende, governi, istituzioni finanziarie pubbliche e private impegnate in acquisizioni su larga scala di terreni nel Sud del mondo sta crescendo a dismisura, andando a minacciare il sostentamento e la sovranità alimentare di innumerevoli comunità locali.» disse, ritornando al suo tavolo per leggere alcuni appunti che aveva preso.

Ma i ragazzi seguivano la lezione svogliatamente. Quanto accaduto al figlio dell’amico del professor Echos aveva smorzato l'interesse per l’argomento, suscitando tuttavia in loro una forte repulsione per la balordaggine umana e per le atrocità compiute. Truman lo comprese e suggerì loro che forse sarebbe stato meglio andare a svagarsi.

Sebbene l’atmosfera che si respirava in quei giorni non fosse delle migliori, i ragazzi piuttosto che avvilirsi e stare con le mani in mano, preferirono dedicarsi alla ricerca su Internet per saperne di più sulla simbologia del gallo. La prima cosa che fecero fu quella di sguinzagliare per il web i loro amici in patria, creando, in tal modo, una sorta d'indagine globale sulla quale riponevano le speranze di scovare un indizio o una qualche informazione utile che potesse spiegare loro il significato del gallo impresso sull'amuleto. 
Grazie alle precise indicazioni fornite da Maciste, Margaret riuscì ad abbozzare un disegno che ritraeva un gallo che canta al mattino, alle cui spalle si eleva un albero con i rami rivolti all'insù. Ne uscì uno schizzo, peraltro ben riuscito, da mostrare ai destinatari delle numerose email inviate.
Seduto in disparte il professor Truman, senza darla a intendere, pareva interessato alla ricerca che stavano effettuando i ragazzi e, facendo finta di leggere un opuscolo, stava con le orecchie tese ad ascoltare le informazioni che raccoglievano in Rete. 
«Sentite questa!».» disse accalorato Aristovoulos Doukas, seduto nella postazione centrale tra le sette disponibili, leggendo l’email inviatagli da un amico greco. «Il gallo è quasi l'epitome della fedeltà e della puntualità. Per gli antenati che non avevano sveglie il canto era significativo, in quanto poteva risvegliare le persone che si alzavano e iniziavano a lavorare... ». 
«Epitome, e che significa?»  domandò Maciste, soddisfatto d'essere l’artefice della ricerca in corso. 
«Epitome significa compendio di un'opera voluminosa, redatto a fini divulgativi o didattici. » spiegò prontamente Pamela, leggendone il significato sul monitor.
  «Il gallo che canta non appena il sole sorge, viene visto come una creatura yang propizia.» intervenne Toriello, che sino ad allora era stato a smanettare come un forsennato. 
«Nella cultura cinese, un altro significato simbolico del gallo porta a esorcizzare gli spiriti maligni.» si accodò Mike Jones, leggendo un articoletto su un sito specializzato in talismani.
«Il gallo è il decimo nel ciclo di 12 anni del segno zodiacale cinese e i nativi del pennuto sono provvisti di uno spirito caparbio e combattivo, di una grande energia e di una sfrenata curiosità.» tornò a dire Pamela che aveva, ritti in piedi dietro di se, il silenzioso Alden e l’originale Alain Rulem. 
«Guardate un po' questa pittura magica!» esclamò infervorato Larry Desmond, di solito svogliato e taciturno, richiamando l’attenzione di tutti. «Questo é  Zhong Kui, l’uccisore di demoni.» soggiunse, spostando il  monitor verso gli altri di modo che potessero vedere meglio il terribile Zhong Kui che brandiva la sua spada contro le forze del male cavalcando una tigre, considerato un potente animale yang e quindi un utile alleato nella lotta per esorcizzare le forze yin. In mano teneva pure una trappola per demoni in cui venivano risucchiate le cinque creature dannose: ragno, millepiedi, serpente, rospo e geco… tutti esseri che sono l’incarnazione del principio Yin, che viene sentito come negativo. «Questa immagine viene appesa nelle case tradizionali cinesi per proteggere la famiglia dagli spiriti maligni e a quanto pare...» 
«A noi interessa il gallo Larry! Dai, non tergiversiamo, per favore! » lo interruppe piuttosto infastidita Margaret, a cui piaceva eseguire le ricerche in modo più disciplinato.
«Questo è interessante, sentite un po’ !» subentrò Fulvio Molinari, traducendo in italiano quanto era scritto in inglese. «Il gallo e il cane che si fronteggiano sono incarnazioni dello Yin e dello Yang. Lo yin è associato alla pesantezza, all'acqua e alla passività, lo yang alla luminosità, al fuoco e all'attività. Un gallo che canta al mattino viene in genere interpretato come la potenza dell’energia Yang che allontana le forze Yin della notte, spesso rappresentate da un cane che abbaia alla luna.
«Fico!» apprezzò Maciste, tirando fuori dalla maglietta il piccolo talismano appeso alla collana di corda, simboleggiante lo Yin e lo Yang.
 « Lo yin e lo yang, perché no ! Può darsi abbia qualche attinenza con quanto stiamo cercando. » suggerì il compunto Molteni, seduto a un tavolino intento a scribacchiare su un quaderno.
 Mentre la ricerca degli studenti procedeva a meraviglia e le informazioni raccolte cominciavano ad affluire nelle loro teste, giù per la strada alberata, che dal castello conduce a valle, se ne andava tristemente passeggiando Yakima. La tragica morte del figlio di Cornelliuson lo aveva turbato e aveva il presentimento che dietro quella storia ci fosse qualcosa di sporco e poco chiaro. Camminando lentamente con una canna in mano raccolta lungo la strada, sentiva riaffiorare ricordi dolorosi... Da quando era al mondo lui, i suoi genitori e altri due fratelli e una sorella, avevano dovuto sopportare le prepotenze di una potente famiglia della contea, la quale, ricorrendo impunemente a diritti ereditari risalenti ad un antico editto imperiale, accampava pretese sulla loro terra. Questo genere di soprusi, al pari di quelli che doveva aver subito il suo amico Cornelliuson, non fecero che accrescere la sua rabbia e per lui sarebbe stata una grande liberazione se solo avesse potuto esternarla in qualsiasi modo! Alzò lo sguardo al cielo, mormorando una specie di nenia, riprendendo a camminare con flemma.
Rientrato al castello quando tutti dormivano, avvalendosi della complicità di Michael, con il quale si era accordato sin dal mattino che gli avrebbe aperto il portone, a Yakima fu recapitato dal giovane malgascio un messaggio del professor Echos. «Eccolo! » disse, tirandolo fuori di tasca.
«Lui ti ha aspettato fino alle tre ma poi aveva da fare ed è andato via in taxi » disse in modo confidenziale, essendosi meglio conosciuti il mattino presto.
«Dove andato.»
« Non so! Questione di uffici, forse! » disse con voce quasi tremula ma col sorriso stampato sul viso.
Letto il breve messaggio Yakima salutò Michael, avviandosi difilato nella sala internet, facendo attenzione a non sfasciare la sedia con il suo enorme peso. Accomodatosi, accese il computer e inviò una email agli amici di Bellevue, nello Stato di Washington. 
Ma ancora più tardi di lui tornò al castello Echoswood, giunto a bordo di una limousine con autista messogli a disposizione da una affascinante benefattrice dell’ESI, di famiglia nobile, tra le più titolate della regione romana, la quale mostrò di avere una particolare simpatia per lui, che vedeva sempre volentieri ogni qualvolta tornava dai suoi viaggi. Le piacevano molto le storie che raccontava sulle usanze e le abitudini di popoli sperduti delle jungle del mondo... Probabilmente, anche quella notte, doveva averle raccontato qualcosa del genere!

Memore di quanto aveva lasciato scritto nel messaggio fatto recapitare a Yakima, Donald Echoswood, dopo un paio di ore di sonno, con gli evidenti segni della crapula notturna che gli segnavano il volto, andò a bussare alla porta dell’amico che, come era suo solito, trovò già in piedi, pronto per scendere a fare colazione con lui.
Nella sala mensa davanti a due tazze di caffè Donald spiegò a Yakima quanto era venuto a sapere il pomeriggio del giorno avanti da un alto funzionario della FAO. Riguardava gli interessi di alcune società cinesi su dei terreni attorno a Maputo, la capitale del Mozambico e la conseguenziale situazione alimentare sempre più drammatica e complessa della popolazione. 
«Molte grandi aree di terreni agricoli stanno finendo nelle mani di operatori stranieri che hanno un grande interesse ad accaparrarsi i terreni.» disse Donald sorseggiando il caffè all'americana che tanto piaceva a Yakima e che lui beveva con la speranza che riuscisse a fargli passare il mal di testa. «La disputa sulle terre agricole si sta facendo sempre più esplosiva.» soggiunse, ben conscio della situazione in cui si era venuto a trovare Cornelliuson. «Chi ne trae qualche vantaggio, dice che c’è abbondanza di terra inutilizzata e che bisogna renderla produttiva. Di contro, i piccoli coltivatori, che sono numerosi e possiedono piccoli appezzamenti ma contribuiscono quasi interamente al PIL nazionale, sostengono che hanno diritto a restare sulle terre dove sono nati, senza le quali non avrebbero di che mangiare. Capisci Yakima, in quale contesto complicato si trova il nostro amico.» soggiunse con una espressione sofferente, massaggiandosi la parte posteriore della testa in quanto il dolore stava diventando insopportabile.
«Tu stai male ?» domandò Yakima, addentando una mela presa dal cesto sul tavolo.
«No, no... è solo un fastidioso mal di testa.»
«Tu fare vita no buona, professore! » disse Yakima, guardandolo dritto negli occhi.
«E’ che ieri debbo aver bevuto qualche bicchiere di troppo.» si giustificò Donald,continuando a pigiarsi con i polpastrelli delle dita la base del cranio. «Comunque, il nominativo che ti ho fornito corrisponde a una società cinese che opera nella zona in cui vive Cornelliuson... E visto che debbo tornare alla FAO, vedremo di saperne di più nei prossimi giorni.» proseguì, bevendo l’ultimo goccio di caffè rimasto nella tazza.
«Io vado in Mozambico.» disse deciso Yakima.
«Scherzi! »
«Io non scherzare su queste cose.»
«Ok, va bene, tranquillo... parliamone con calma più tardi» disse Donald, ben conoscendolo.
Yakima era di poche parole, osservava molto e agiva rapidamente, tant'è che si era già alzato dal tavolo. «Vado a preparare valigia. » soggiunse, avviandosi per le scale.
«Ma dove vai testone!» gli gridò dietro Donald, alzandosi. Ma Yakima non lo stava più ad ascoltare e con due falcate per le scale si portò fuori dalla sua visuale.
Rimasto solo coi suoi pensieri, Echoswood decise di fare una telefonata a Mr. Atkinson. Secondo i calcoli sul fuso orario le sette del mattino ora locale corrispondevano alle ore otto di Maputo e quindi facile che lo avrebbe trovato ancora in casa. Raggiunto il telefono si accomodò sulla
poltroncina e consultato la rubrica, afferrò la cornetta e compose il numero, restando in attesa.
« Hello! » rispose una voce limpida e risoluta.
« Good morning Mr. Atkinson, sono Echoswood e... »
«Caro professore, mi hai preceduto, ma sono contento lo stesso. Ma dimmi, c’è qualcosa di nuovo?» chiese con una nota di apprensione. 
«No, non direi! A parte Yakima che ha la smania di partire per il Mozambico.» disse Donald, massaggiandosi il collo.
«Sul serio! Come mai questa decisione improvvisa? »
«Vuole raggiungere Cornelliuson, vuole stargli vicino in questo difficile momento.»
«Pensiero nobile il suo! Ma non credo sia il momento adatto per venire da queste parti.» consigliò
Mr. Atkinson, assumendo una voce ferma. «Ci sono disordini e morti a causa del fatto che il governo non ha più la possibilità di assicurare il prezzo politico al pane. Il prezzo delle derrate alimentari aumenta in seguito ai cattivi raccolti legati al clima impazzito degli ultimi mesi e tieni conto che in Mozambico l’acquisto del cibo assorbe il settanta per cento del reddito.» puntualizzò Atkinson in tono avvilente. 
«Già, mentre a Ginevra, i dirigenti del settore agroalimentare e del settore agroindustriale parlano la lingua delle organizzazioni umanitarie.» disse Donald, stiracchiandosi sulla poltroncina. «Dicono di voler aiutare l'Africa a nutrirsi, dicono di migliorare la sicurezza alimentare, di creare mezzi di sussistenza e persino investimenti socialmente responsabili... »
«Si! Ma poi organizzano networking durante i pranzi e i ricevimenti per cocktail sponsorizzati da hedge fund e private equity che sono fondamentali per fare business.» intervenne Atkinson, come al solito ben informato sull’argomento.
«CVD o meglio, come volevasi dimostrare... Me li immagino costoro che trattano affari su terre agricole nei bar e nelle sale riunioni private di hotel di lusso come l'Inter Continental di Ginevra o il Waldorf Astoria a New York... Dovremmo andarci un giorno! »
 «Per carità Donald! Frequentare i grandi hotel mi disgusta.» disse, con una evidente avversione per quel genere di vita. «Piuttosto, consiglia a Yakima di non muoversi, sarà meglio. »
«Ci proverò, ma sarà difficile.»
«Presto ti farò sapere chi sono i responsabili della morte del figlio di Cornelliuson... avrei voluto già farlo ma non mi è stato possibile sapere di più. C’è fin troppa confusione su questa storia...»
«Ok! Intanto io mi sto informando alla FAO. Voglio vedere se riesco a beccare un vecchio amico che mi dava spesso delle informazioni utili... Bene, allora ci si sente Robert!»
«Mi raccomando, insisti con Yakima, non farlo partire... A presto professore! »
Nel mentre erano scesi in refettorio alcuni studenti che salutarono Donald non appena ebbe chiuso la comunicazione. «Buongiorno ragazzi» fece lui contraccambiando. «Dormito bene? »
«Peccato che tra breve ce ne andremo... Qui al castello si dorme che è un incanto! » disse Pamela con voce esile ma con il volto raggiante.
« Si, a parte il gallo che canta all’alba.» si lamentò Alain Rulem.
«Dovevano essere le sei e trenta quando ha cantato il gallo.»  rispose Omar, intento ad apparecchiare la tavola. 
«Ah già!» esclamò il professor Echos, essendo venuto a sapere da Truman della ricerca che stavano compiendo sul web. «Il gallo che canta, come l'amuleto di Yakima! Be', se il gallo che avete sentito è quello degli Iorio, la famiglia che abita giù nel curvone, credo che anche lui, come il suo padrone, che è un pilota di aerei, sia vittima del jet lag.» disse sorridendo. «Allora Mike, si deve alla tua grande curiosità di gironzolare per il web se è venuta a galla la storia del Niger?» domandò soffermandosi alle spalle di  Mike Jones che stava accingendosi a fare colazione.
«Ah è lei!» disse Jones voltandosi. «Be', che dire... E’ stata pura fortuna, professore! Se quella notte mi fossi messo ad ascoltare musica, come faccio spesso, non credo avrei mai saputo di lei e Yakima » soggiunse, parlando con un leggero imbarazzo.
«Immagino che la notizia vi abbia dato l'input per fare una ricerca sui rifiuti radioattivi» chiese Echos, sapendo che l’evolversi tragico degli eventi aveva impedito a lui e Truman di trattare l’argomento.
«Si, ne abbiamo parlato! Molinari, ad esempio, ci ha raccontato diverse cose.» rispose senza tentennamenti il giovane, parando in un certo modo l'inaspettato colpo lanciatogli da quel volpone di professore.
«Ah, quel toscanaccio!» esclamò allegramente Donald.
«Allora sono certo che vi sarà rimasto qualcosa nella zucca!» soggiunse convintamente sapendo che riguardo i rifiuti radioattivi, Molinari era una fonte d'informazione inesauribile. Così dicendo diede una leggera pacca sulla spalla di Jones, salutò gli altri e si diresse nella stanza di Evelyn Martin, che a quell'ora doveva essere arrivata.
 Continua...

Dopo avergli riferito della conversazione telefonica avuta con Mr. Atkinson, Donald riuscì a riportare alla ragione quel cocciuto di Yakima soltanto promettendogli di partire con lui per il Mozambico entro due, tre giorni al massimo. Preso l'impegno lo abbracciò e salutandolo con una certa fretta, scese giù in strada dove ad attenderlo c'era una elegante Mercedes scura su cui salì, scomparendo oltre la curva.
Non sempre Yakima riusciva a comprendere il suo amico professore. Sebbene avessero viaggiato, mangiato, dormito assieme per mesi, vederlo ora in un contesto diverso da quello ruvido e scomodo a cui era abituato, gli infondeva una sorta di disagio. Decise di indossare la pratica tuta che aveva acquistato per lui Truman e uscì dal castello con l’intenzione di fare una lunga passeggiata per riflettere sul da farsi.
A questo punto, bisogna svelare qualcosa di più del passato di Yakima, in modo che si comprenda l’evolversi degli eventi che seguiranno da qui in avanti.
Di lui si sa che lasciò la Cina da clandestino a bordo di un grosso mercantile, avvalendosi della preziosa complicità di alcuni suoi compaesani che viaggiavano per mare. Quando finalmente raggiunse l’America, grazie alla notevole sua stazza, non ci mise molto nel trovarsi un lavoro di fatica. Difatti, fu prontamente impiegato presso l’azienda di un imprenditore cinese-americano che lo assunse come aiutante cantiniere in una delle numerose imprese vinicole sparse per la Yakima Valley, la prima area viticola americana istituita nello Stato di Washington.
Lavorando con i nuovi compagni Yakima ebbe modo di conoscere Liang Huang, originario dello Xinjiang, il quale gli presentò sua madre e le sue due sorelle che abitavano da un anno a Bellevue, a circa due ore e mezzo di auto dalla Yakima Valley e a venti minuti da Seattle, di cui Bellevue è il sobborgo più grande. Qui Liang veniva ogni week end e spesso si accompagnava a Yakima a cui fece conoscere la sua famiglia ma anche delle persone cinesi-americane assai influenti.
Liang Huang aveva dovuto lasciare la Cina per sfuggire alla polizia subito dopo le Olimpiadi di Pechino. Era stato accusato assieme ad altre migliaia di persone, di attentare alla sicurezza dello Stato e quello di raggiungere un suo parente in America, per sottrarsi decisamente dall'infondatezza dell'accusa, era stata la sola via percorribile.
A Bellevue vive un’alta percentuale di cinesi-americani e per le strade cittadine non è difficile sentir parlare mandarino o cantonese. Temendo lo spionaggio gli Stati Uniti sono piuttosto scrupolosi coi cittadini di origine cinese ma seguendo i consigli di Liang, il quale aveva avuto modo di sperimentare prima di lui le problematiche riscontrate sul suolo americano, Yakima dette prova di saper camminare sul velluto, mantenendosi calmo e vigile in ogni circostanza, evitando di mettersi in vista, anche perché non era certo uno che passava inosservato. Questo suo prudente atteggiamento finì col suscitare l’interesse di Fu-Yu, un personaggio temuto e rispettato dalla comunità cinese per il suo carattere scorbutico e arrogante, che agli occhi di Yakima non apparve affatto terribile come veniva dipinto.
Fu -Yu era a capo di una singolare congregazione di cinesi avvolta nel mistero più assoluto, ramificata un po' ovunque nel mondo e inserita a tutti i livelli in tutti i gangli del potere in Cina. Un gruppo di potere occulto che andava in soccorso di coloro che si ritenevano accusati ingiustamente di reati politici e di pendenze penali con lo Stato cinese.
 Yakima fu invitato a farne parte e accettando la chiamata, nel volgere di alcuni incontri segreti avvenuti in piena luce del giorno su una panchina dell'Alvin Larkins Park di Seattle, si ritrovò tra le mani un passaporto nuovo di zecca abilmente contraffatto, alcune raccomandazioni a cui avrebbe dovuto attenersi e un oggetto racchiuso in una scatola di legno il cui contenuto era per uso personale.
Con la nuova identità Yakima riacquistò libertà di movimento e dopo un lungo tirocinio formativo in luoghi che dovevano restare segreti, fu inviato dalla misteriosa consorteria in missione in Africa, per tenere sotto controllo alcune imprese cinesi che operavano nel Senegal e nel Kenya a Mombasa, dove conobbe Donald, il cui intervento fu decisivo nel seminare la banda di tagliagole che volevano sopprimerlo. Con lui andò poi in Mozambico da Cornelliuson, l’amico di Donald che divenne anche suo amico, la cui recente morte del figlio aveva ridotto in uno stato pietoso. Da lì si spostarono in Niger e stavolta grazie a lui o meglio al suo amuleto, furono rimessi in libertà dalla gendarmeria aeroportuale; infine al castello di Panerula, dove adesso stava rientrando dopo una salutare camminata. Senonché appena varcato il portone di accesso, nel vedere Michael con il volto pallido e contratto, non ci mise molto a capire che doveva essere accaduto qualcosa di molto grave.
Silenzioso e cupo il giovane malgascio si avvicinò a Yakima ma mentre stava per accennargli qualcosa, udì alle sue spalle la voce ferma e chiara del professor  Echos.  «Lascia Michael, ci penso io!»  disse, approssimandosi a Yakima con un portamento compassato che celava una forte agitazione interiore. Era rientrato da una mezz’ora al castello e quando Evelyn gli aveva comunicato della telefonata disperata di Didior, ne restò dolorosamente sorpreso. 
«Senti Yak, è successo qualcosa che non avrei mai voluto dirti.», si giustificò chiamandolo come era solito fare, senza dilungarsi. «Sono giunte brutte notizie dal Mozambico che riguardano il nostro amico.»
Yakima lo scrutò pensieroso, subodorando qualcosa di tragico. 
«Ha telefonato Didior... era disperato perché il suo padrone... se n’e andato.» riprese Donald, non riuscendo a trovare le parole giuste per proseguire. 
«Andato dove?», fece lui sorpreso. 
«Andato via... per sempre, Yak!» disse in modo lapidario. 
«Vuol dire che è morto ?» domandò sgomentato.
«Purtroppo non ha retto al dolore della tragedia del figlio e... »
«E... » accennò nervoso, stringendo forte i pugni.
«... Si è dato fuoco nella piazzetta del suo paese.» riprese Donald con l’angoscia addosso, arrivando con sollievo al dunque. 
«Non può aver fatto questo!» esclamò rabbioso Yakima sferrando un forte pugno su un cartello segnaletico in lamiera affisso ad un palo.
Dalla scala esterna del cortile scendevano afflitti e timorosi il professor Truman, la signorina Martin e alcuni studenti, i quali si fecero incontro ai due rimasti ritti, immobili, silenti e addolorati uno di fronte all'altro a ridosso del muro di cinta. Evelyn Martin si accostò a Donald dandogli una fuggevole carezza sul viso. A Truman bastò osservare l’espressione arcigna di Yakima per capire che era sul punto di scoppiare. Furio Molinari, Doukas, il placido Tobia, Alden, Margaret e Pamela li rincuorarono con uno sguardo fuggevole e un timido sorriso. Sapevano quanto fossero legati al povero Cornelliuson di cui ne parlavano come fosse un fratello, una persona leale e fidata conosciuta viaggiando attraverso l’Africa, il più antico dei continenti ma anche il più giovane, alla mercé continua di multinazionali, Paesi e holding finanziarie travestite da tanti Babbi Natale...
Cornelliuson si era immolato nella piazzetta del suo villaggio in un atto di protesta contro coloro che si erano impossessati del suo terreno. Lasciava una moglie e tre figlie oltre ai suoceri anziani che lo avevano aiutato a far fruttare quella che lui aveva sempre considerato terra di sua proprietà e che gli avevano portata via ingiustamente e brutalmente.
A questo punto il viaggio in Mozambico non aveva più ragione di esistere. Yakima ne soffrì terribilmente, standosene tappato nella quiete della sua stanza in attesa di decidere il da farsi. Si sentiva come un leone in gabbia, alzandosi e distendendosi ripetutamente dal letto con una gran voglia di agire, di andare a fondo della sporca faccenda. Con Donald fu deciso d’inviare una lettera di condoglianze ai familiari di Cornelliuson, assieme a un bonifico bancario di qualche migliaio di euro per poter far fronte alle difficoltà del momento. Senonché l’indomani una notizia inaspettata lo rallegrò, aprendogli orizzonti insperati. Quanto gli veniva comunicato poteva essere per lui l’occasione giusta per provare di pareggiare i conti con chi riteneva responsabile della morte del suo amico. Difatti nella email proveniente da Bellevue era accluso un elenco di ditte cinesi operanti a Maputo, in Mozambico, facenti parte della società madre di cui lui, precedentemente, aveva chiesto informazioni. La Mine Ki Woong aveva interessi minerari in diversi paesi africani ma a quanto pare, attraverso società sussidiarie, non disdegnava altri campi di lavoro. Pertanto, sapendolo in Italia, gli amici cinesi-americani gli fornirono il nome di un grande magazzino in Roma, nella zona Esquilino, che trattava maggiormente pregiati oggetti in ebano e in palissandro malgasci, gestito da tal HENG Zhou... il cui nome, immediatamente, rammentò a Yakima il viso paffuto e insolente del cognato del suo acerrimo nemico, che non vedeva da anni, e che oggi amministrava una grande impresa cinese operante su larga scala.
Ora che aveva rintracciato in Mozambico il suo antico rivale, per il quale era riuscito a convincere Fu –Yu a fare di lui una sorta di agente segreto, Yakima non essendo per niente persuaso di avere torto, continuava a sospettare che dietro l’odiosa vicenda di Cornelliuson potesse esserci proprio colui che disprezzava più di ogni altra cosa al mondo. Dalle informazioni ricevute risultava, infatti, che alcuni appezzamenti terrieri nel villaggio del suo povero amico, erano sotto le mire di una società cinese, la cui intenzione era d’impiantare una industria di trasformazione agroalimentare. Sebbene la Mine Ki Woong la si conoscesse come una industria mineraria, probabilmente aveva puntato gli occhi anche altrove. In molti casi la voracità di terra genera una miriade di piccoli e grandi affari sporchi, presentati come mirabolanti investimenti societari per il futuro e gonfiati, all'uopo, di tutto l'orgoglio patriottico possibile. Era davvero un peccato che al posto del grande capo avrebbe dovuto vedersela con il cognato! Rammentava bene il mellifluo HENG Zhou, già al servizio della sua famiglia. Avendolo inviato in Italia a gestire un'attività, a quanto pare lucrosa, la diceva lunga sul modo disonesto di operare del suo nemico giurato. Ripensando alle ignominie subite da lui e dalla sua altezzosa famiglia, gli venne una gran voglia di entrare subito in azione. Tuttavia non aveva ancora deciso di parlare all’amico professore di quello che aveva in mente di fare. Di certo avrebbe cercato di dissuaderlo. Donald conosceva poco del suo passato e lui non ne parlava mai volentieri. L’unico al quale aveva raccontato il vero motivo della sua fuga dalla Cina era stato Fu –Yu, il capo della congregazione cinese. Dovette farlo poiché era il solo modo per potersi mettere sulle tracce di colui che aveva rovinato la sua vita.
Decise di fare due passi per schiarirsi le idee. Vicino al portale d’ingresso trovò Michael indaffarato a riparare una vecchia bicicletta. «Tua?», gli chiese, fermandosi accanto a lui.
«Si! Regalo del professor Truman per me e Omar», disse con l’inconfondibile suo vocione, alzando lo sguardo su di lui. «L’aveva in magazzino da anni.»
«Tu sei del Madagascar ?» gli chiese tornando con la mente a HENG Zhou e al suo magazzino di oggetti pregiati.
«Si, di Kiranomena, un paesino di montagna a 300 chilometri dalla capitale».
«Antananarivo!»
«Si! »
«C'è tanto palissandro in tua isola? ».
«Eccome, il Bois de Rose!», disse in francese alzandosi, pulendosi le mani con un panno. «Un albero di piccole dimensioni con il legno che odora di rosa… », soggiunse, sorridendo. «E’ un legno molto costoso... ci fanno anche le chitarre e ci estraggono una essenza per profumi».
«Ed è tanto cercato palissandro su tua isola?» s’informò Yakima curioso.
«Oh si, molto! Da tanto tempo molti legni di palissandro ed ebano sono stati saccheggiati dalle foreste del Madagascar », disse, confermando di conoscere l'argomento. «Alberi del genere non hanno futuro nel mio paese... Lo sfruttamento del legname è fuori controllo e poi è una minaccia per la loro sopravvivenza...», soggiunse amareggiato, consapevole di quanto sia costato al suo paese il commercio illegale, che in un certo senso aveva influito sulle sue scelte di vita.
«Già! », fece Yakima rabbuiato in volto, pensando a quanto la povertà, la corruzione e la cattiva governance abbiano favorito il saccheggio del legname prezioso. Salutò Michael con un buffetto sul viso e uscì dal castello.
La sera nella sala mensa c’era un’atmosfera triste. Il soggiorno estivo era finito e l’indomani gran parte di loro avrebbero lasciato il castello, delusi soprattutto di non essere riusciti a portare avanti la loro ricerca su internet. Ma la disgrazia di Cornelliuson aveva finito col togliere loro ogni traccia di entusiasmo.
Il professor Echos, a differenza di altre volte, non sembrava nella serata giusta per fare discorsi di commiato, anche se agli occhi della signorina Evelyn Martin, erano diversi giorni che pareva essere cambiato. Ma se la cavò ugualmente augurando a tutti un avvenire radioso, specialmente per coloro che avessero occupato il tempo impegnandosi nelle questioni ambientali. Poi, visto che si sarebbe dovuto alzare presto, in quanto si era accordato con Yakima che sarebbero partiti insieme per Roma, preferì andarsi a riposare.
Il taxi li lasciò alle nove alla stazione Laurentina da cui presero la metro viaggiando insieme fino alla fermata di Piramide dove, secondo quanto avevano concordato, le loro strade si divisero. Yakima proseguì con la metro sino a Termini mentre Donald s’incammino verso la sede della FAO che raggiunse in una decina di minuti. Doveva incontrarsi con un dirigente che si occupava della questione agricola in Mozambico e dato che Yakima gli aveva detto che sarebbe tornato al castello per suo conto, avrebbe potuto fare una visita ad un vecchio professore che non vedeva da tempo e che abitava proprio da quelle parti.
Nel mentre, per non rivelare a Donald quanto aveva in mente di fare, Yakima si era inventato una scusa plausibile dicendogli che sarebbe passato in un negozio nei pressi della stazione Termini per acquistare una lampada cinese. Ma non era affatto così! Se aveva deciso di rifilargli la bugia, era solo per tenerlo lontano dalla sua lucida follia.
Uscito dal passaggio sotterraneo Yakima si ritrovò sotto i portici di piazza Vittorio, il quartiere romano con la più alta percentuale di cinesi. Molti dei suoi compaesani erano impiegati nel ramo commerciale e proponevano, quasi esclusivamente, prodotti importati dalla madrepatria o da zone del mondo sotto il controllo cinese. Camminando lungo il marciapiede vide sfilare davanti ai suoi occhi negozi di ogni genere: abbigliamento, calzature, bigiotteria, aggeggi elettronici, cartoleria oltre a diversi internet point nei quali si potevano acquistare cartoline, giornali, caffè, pure panini cucinati e preparati con salse dagli aromi particolari. Ovunque vetrine addobbate e una miriade di scritte in cinese, indiano e chissà quale altra lingua.... frutto di una globalizzazione selvaggia che sta mettendo a dura prova il mondo.
Naturalmente il suo incedere non passava inosservato dai passanti, i quali si voltarono ad osservarlo ripetutamente. Ma lui, avvezzo a questo genere d’interesse, non faceva più caso alle reazioni che il suo passaggio suscitava; era consapevole della straordinaria corporatura che Madre Natura gli aveva fornito la quale attirava la curiosità della gente come il miele per le api.
Imboccò Via Emanuele Filiberto, una strada costruita nell'età umbertina, percorrendola sino ad infilarsi in una traversa dove, controllando i numeri civici, raggiunse il portone di un anonimo palazzotto dei primi del novecento. Suonò il campanello e da lì a breve si vide aprire uno spioncino da cui emerse il volto emaciato di un vecchio cinese, peraltro orbo ad un occhio, il quale dopo avergli gettato un’occhiata sommaria, impressionato dalla sua mole, decise di aprire l’uscio senza ulteriori indugi.
«Sto cercando mister HENG Zhou, è qui?» disse Yakima entrando, chiudendosi la porta alle spalle.
L’ometto alzò lo sguardo su di lui. «Chi debbo annunciare?» chiese intimorito.
«Un amico d’infanzia può bastare… anzi non dovrà annunciarmi perché io verrò con lei» affermò deciso, invitandolo a fargli strada.
Precedendolo lo sconcertato ometto lo condusse attraverso un lungo salone sui cui lati erano in mostra una serie di mobili in palissandro intagliato, poltroncine, credenze, consolle, chitarre, tavoli, un pregiato timone in legno, una psiche dello stesso legno con specchio ovale e uno scrittoio e un secretaire in finto Luigi XVI di ebano con profili dorati.
A quell’ora c’era poca gente ad aggirarsi per la sala a  visionare una parte della merce esposta su appositi ripiani in cui facevano sfoggio maschere africane in ebano, statuette di elefanti, piccole sculture sia in ebano che in avorio, cofanetti portagioie ed altri preziosi oggetti.
Superato il salone l’ometto sgiunse ad un'anticamera. «Vado ad annunciarla» disse costui con un fil di voce, accingendosi ad aprire una porta.
«Mi annuncio da solo non si preoccupi!» rispose lui tempestivo,  afferrando la maniglia e aprendo la porta per chiudersela alle spalle lasciando fuori lo sgomentato inserviente il quale, preso dal terrore tornò indietro di corsa attraversando il salone sotto lo sguardo disorientato dei clienti raggiungendo la porta di accesso e uscendo difilato in strada per cercare aiuto presso il vicino ristorante cinese.
Intanto addentratosi nella stanza dove pareva non esserci nessuno,  Yakima si guardò attorno: c'era un grosso tavolo al centro, qualche mensola con pochi libri, un quadro con una serie d'ideogrammi, un calendario appeso alla parete con delle belle fotografie di Hong Kong e Shangai by night e tre scalini su cui salì terminanti davanti una porticina rivestita di pregiato mogano. Se ci fosse stato qualcuno, pensò, certamente doveva trovarsi oltre quella porta. Bussò e impugnando il pomello di ottone entrò senza attendere risposta.
La stanza era grande e sul fondo c’era un tale seduto dietro ad una scrivania intento a visionare con la lente un grosso libro. «Spero di non disturbare», disse entrando risoluto.
« CHEN Deng! » esclamò sorpreso il tale chiamandolo col suo vero nome.
«Signore!» rispose Yakima esibendosi in un buffo mezzo inchino.
«Quale onore! Ma prego, accomodati!» disse allegramente imbarazzato un signore rotondetto con un pizzetto lungo e sottile. Tuttavia se avesse immaginato quello che stava per capitargli, il suo finto buonumore sarebbe svanito all'istante.
«Allora, come va?» disse Yakima nella sua lingua madre in tono sarcastico e tagliente. «Dobbiamo raccontarci parecchie cose noi due, lo sa? Allora, da dove vogliamo cominciare mio egregio signor HENG Zhou?» soggiunse minaccioso, facendosi sotto.
Il tono usato ma soprattutto l'espressione glaciale dell'intruso annichilirono il malcapitato.
«Forse vuole raccontarmi di certe manovre terriere in Mozambico che tanto interesse suscitano nella vostra famiglia... oppure desidera parlarmi della partita di medicinali scaduta giunta in Niger lo scorso aprile?» disse avvicinandosi sempre più a lui il quale si abbarbicò dietro la scrivania restando come incollato alla sontuosa poltrona di pelle. «Magari potrebbe accennarmi qualcosa su Zang Dong Sheng, il suo caro cognato... Si, questo è un argomento che m’interessa molto!» sottolineò, pronto a riservargli il trattamento che aveva riservato per lui. 
«Ma di lui non so nulla CHEN Deng, credimi!» si schernì impallidito all'istante nel vedere il tremendo ghigno che aveva dipinto sul viso. Cominciò a tremare come una foglia; sapeva bene quali fossero le sue intenzioni e l’idea di sottoporsi alle sue maldestre cure gli fecero rimpiangere di non essere rimasto nel suo paese a raccogliere kiwi. Senonché il vociare indistinto che si faceva sempre più dappresso, gli fece sperare che stessero arrivando i soccorsi, e ciò gli diede la stura di poter scoccare finalmente la sua malignità. «Pare che tu non voglia proprio darti pace CHEN Deng... Sei venuto qui con idee bellicose mentre io sono pronto ad ascoltarti... Lo faccio solo  per rendere un omaggio postumo a quella sgualdrina di tua sorella... con cui sia io che i miei defunti cognati ci siamo sollazzati!»  disse rovesciandogli addosso il velenoso livore, guardandolo con occhi pieni di odio.
A quelle miserevoli parole Yakima non poté frenarsi. «Sei solo un piccolo e lurido bastardo che ora ridurrò in polvere!» disse tirandolo su per il bavero della giacca come un fuscello, scaraventandolo sul tavolo, buttando all’aria ogni cosa che vi era sopra. Ma proprio in quell’istante la porticina si spalancò e urlando e imprecando entrarono un nugolo di energumeni cinesi con dei bastoni in mano che si avventarono come furie su di lui, il quale cominciò a far volare sberle e pugni con le sue mostruose manone. Ma questi erano più che mai decisi a fargli la pelle scagliandogli mazzate sulle gambe e tirando fuori coltelli grossi da cucina. Yakima aggiustò allora il tiro dei suoi pugni: oltre ad avere dei muscoli d’acciaio aveva una buona conoscenza di tutti i colpi di lotta libera e di pugilato. Assestò una serie di uppercut e diretti che ne mise fuori causa almeno tre e anche se uno era riuscito a sferrargli un potente pugno, nello stesso istante lui si era abbassato, centrando lo stomaco dell’omone con un secco destro subito doppiato da un massacrante sinistro al mento. Un altro ancora gli si avventò contro urlando come un ossesso sferrando una violenta bastonata ma lui, abbassatosi fulmineamente, rialzandosi di scatto lo fece volare addosso alla parete. Così nel volgere di pochi minuti l’efficace controffensiva di Yakima tolse ai soccorritori ogni velleità d'insistere e il resto della demoralizzatissima compagnia trovò conveniente scantonare nel corridoio incontrandosi però con degli agenti di polizia giunti sul posto dopo aver ricevuto una telefonata. Agli ordini dell’ispettore furono tutti fermati e condotti in questura per un interrogatorio. HENG Zhou e altri due furono invece trasportati al vicino ospedale. Yakima di fronte alle richieste dei poliziotti dichiarò le sue generalità ma fu cortesemente invitato a trattenersi nella cella di sicurezza. Per lui il reato ipotizzato era di maltrattamento, percosse e minacce in luogo di lavoro e della distruzione di alcune suppellettili che facevano parte dell’arredo dell’ufficio in cui si trovava.
Gli fu permesso di chiamare un avvocato che l’arguto e previdente  capo della congregazione cinese di Bellevue aveva messo in allerta in Italia. Fu –Yu, sapeva che quando quel cocciuto di Yakima si ficcava un'idea nella sua testaccia dura non c'era più posto per altro. Perciò aveva preso questa precauzione, ben sapendo quali idee funeste covasse verso il suo rivale.
L’avvocato, un cinese residente in Italia prontamente informato, raggiunse la questura dell'Esquilino e assieme ad un agente e a un dirigente fu accompagnato in una stanza dove avevano rinchiuso il suo assistito. Vedendolo per la prima volta, non si aspettava un gigante di tale stampo. «Lei è forse nato all’alba» domandò il legale vedendo l’amuleto di Yakima. «Per quanto ne so i nati all’alba sono fortunati.» soggiunse sorridendo, dando uno sguardo d’intesa al dirigente della polizia.
«La fortuna aiuta gli audaci.» rispose laconico Yakima.
«Dipende dalla sorte che gli tocca!» disse a sua volta l’avvocato il quale informò Yakima che si stava occupando di lui e che presto sarebbe stato rilasciato. Avendolo tranquillizzato, lo salutò e uscì dalla stanza parlottando col dirigente della questura.
Il legale cinese avendo visto l’amuleto e pronunciato con la massima disinvoltura la parola d’ordine, avendone ricevuto per risposta la controparola, aveva adempiuto a ciò che gli era stato richiesto. Ora non restava che contattare il professor Echoswood al castello di Panerula e dirgli quel che gli doveva dire ma sfortunatamente non lo trovò in quanto era dovuto partire urgentemente per il Mozambico. Parlò infine con Frank Truman il quale lo rassicurò dicendogli che avrebbe fatto quel che gli aveva chiesto.
La sera stessa Yakima fu prelevato dall'avvocato e uscendo dalla questura, nel dirigersi con il suo legale verso una berlina blu notte parcheggiata nei pressi, riconobbe l’inconfondibile rombo di una Harley Davidson che vide sbucare da una viuzza laterale alla cui guida c’era l’imprevedibile professor Truman il quale si fermò ad un passo da lui.
«Professore!» esclamò sorpreso Yakima. «Come mai qui?»
«L’ho avvisato io» intervenne il legale «dicendogli di portare i tuoi bagagli.»
Yakima riconobbe le sue borse sul portapacchi della moto e visto che Frank Truman non riusciva a dire nulla in quanto era visibilmente commosso, non capendo bene cosa stesse accadendo, mise la mano sulla spalla dell’avvocato. «Ma che diavolo significa?»
Il legale che era d’indole pacifica, senza scomporsi tirò fuori dalla tasca interna della giacca un biglietto aereo che sventolò sotto gli occhi sorpresi del suo imponente connazionale.  «Questo significa che ti sto accompagnando all’aeroporto dove prenderai un volo per Seattle... »
«Avvocato, sta scherzando?» eruppe lui incredulo. «Mi sta dicendo che debbo tornare in America?»
«Esatto signore... ordini di Mr. Fu –Yu. Mi ha detto che ha un bisogno urgente della sua presenza per una questione in Africa che la interessa molto da vicino. Così mi è stato riferito e così gli dico. Di più non so’, mi spiace!»
Yakima si avvicinò a Truman che era rimasto a cavallo della moto. «Penso proprio che debbo salutarti professore! Mi  dispiace... è tutta colpa mia... ma sono certo che ci rincontreremo!» disse amareggiato, accarezzando il capiente serbatoio della Harley Davidson.
«Certo che ci rincontreremo! Dovrai venirti a prendere la moto che in tua assenza ti attenderà in garage. Penso che in mano tua ringhierà come ai suoi tempi d’oro, amico Yakima! »
«Che vuoi dire, professore?»
«Semplicemente che l’Harley Davidson è roba tua!»
«Grazie amico Frank, farò di tutto per tornare!» Dopo avergli chiesto di salutare l’amico Donald, di cui era al corrente della sua improvvisa partenza, e la signorina Martin, oltre ai rimanenti al castello, si abbracciarono entrambi commossi. Yakima prese i bagagli dal portapacchi e s’infilò con l’avvocato nella berlina che partì immediatamente.


FINE


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