Copenaghen: un summit freddo, freddo
Sebbene la Danimarca, patria dell'energia eolica, sia stato il primo paese al mondo a creare un ministero per l'ambiente, e da cio si era pensato che un vecchio hangar ristrutturato, a venti minuti dalla capitale danese, potesse essere il miglior biglietto da visita per organizzare la 15esima Conferenza internazionale dell'Onu sui cambiamenti climatici, quello accaduto a Copenaghen in questi freddissimi giorni di dicembre, difficilmente sarà ricordato dai partecipanti al vertice per l'ospitalità e i risultati ottenuti.
Nonostante ci siano alcuni scienziati che restano scettici d'innanzi al grande tema del riscaldamento globale, i quali pensano che il taglio delle emissioni di anidride carbonica per evitare la catastrofe climatica sia un lavoro inutile, in quanto, secondo loro, il surriscaldamento della Terra è dovuto a ragioni naturali di corsi e ricorsi climatici nella storia del pianeta, e malgrado a dare linfa a queste voci, ci sia stato, prima dell'apertura del vertice, una specie di climagate, cioè un miniscandalo basato su alcune email che si sarebbero scambiati scienziati ed ecologisti americani incoraggiandosi a vicenda ad esagerare sul peso delle emissioni sul surriscaldamento del pianeta, tanto da far pensare che il surriscaldamento possa giovare a qualcuno, i milleduecento delegati dello United Nations Climate Change Conference (COP 15) di Copenaghen chiamati a lavorare ad un trattato che salvi il pianeta, sono rimasti delusi dai risultati conseguiti.
L'obiettivo del vertice di Copenaghen si proponeva di mantenere l'aumento della temperatura globale entro i 2 gradi rispetto ail livelli preindustriali, che però cambiano da paese a paese, da continente a continente, perchè lo sviluppo economico non è iniziato, storicamente, per tutti nello stesso momento. Di qui, ad esempio, i contrasti tra paesi ricchi e paesi poveri, che rimproverano ai primi di aver inquinato il mondo da molto più tempo di loro e temono di essere penalizzati dalle misure di riduzione di anidride carbonica, ritenuta appunto responsabile del riscaldamento climatico. Per venire incontro a queste esigenze nei paesi emergenti è stato proposto, da parte delle nazioni sviluppate, un finanziamento di 100 miliardi di dollari, di qui al 2020, finalizzato allo sviluppo di tecnologie pulite, che avrebbero consentito una crescita economica non inqunante nei paesi in via di sviluppo. Sembrerebbe semplice, ma non è così! Per ottenere l'obiettivo dei due gradi di aumento della temperatura terrestre, secondo alcuni studi, l'Occidente dovrebbe ridurre le emissioni di anidride carbonica del 30%, i paesi emergenti del 20%. Cifre enormi, che probabilmente non impediranno, secondo le Nazioni Unite, di avere lo stesso 170 milioni di persone colpite da pesanti inondazioni costiere e 550 milioni di persone ridotte alla fame per l'aggravarsi della siccità.
Così, di fronte a queste enormi difficoltà su un possibile accordo, già a metà vertice, si è cominciato a respirare nell'aria odore di fallimento, facendo svanire la possibilità di siglare un accordo vincolante sul clima, tant'è che il ministro danese, presidente del vertice, ha voluto sintetizzare così lo stato dell'arte: "Siamo tra la fame e la vergogna", volendo dire in sostanza che il vertice non avrebbe portato a risultati soddisfacenti. Ciò lo ha indotto, dunque, a dimettersi dall'incarico, lasciando il suo posto al premier danese Rasmussen. Sembra, difatti, assodato, un fallimento della parte tecnica, per cui non rimane che sperare che le nazioni ricche e i paesi poveri possano magari trovare un compromesso per superare lo stallo.
Così si moltiplicano gli sforzi su tutti i fronti ed in un inusuale colloquio in teleconferenza, avvenuta negli ultimi giorni del vertice, tra Obama, Angela Merkel, Sarkozy e Gordon Brown si è cercato di raggiungere un accordo. Tuttavia, Obama ha problemi di far approvare in casa sua impegni superiori all'era Bush ma inferiori a quelli che l'Europa pratica e richiede. La Cina, dal canto suo, non vuole discuterne: continuerà ad inquinare forse un po meno.
Il segretario dell'Onu Ban Ki Moon insiste dicendo "Siamo qui per scrivere un futuro diverso del mondo". Ma in realtà Cina, Stati Uniti ed Europa non si mettono d'accordo. Sono i tre grandi inquinatori del mondo: la Cina con il 21,5% delle emissioni di anidride carbonica; gli USA col 20 e l'Europa col 15 per cento.
Anche il papa da Roma fa sentire la sua voce affermando che l'abuso del pianeta e dell'ambiente da parte di politiche nazionali e internazionali minaccia l'umanità e il suo futuro quanto le guerre e il terrorismo. Chiede quindi nuovi stili di vita, una rinnovata gestione alle risorse naturali.
Tuttavia, sebbene i paesi poveri vogliano una giustizia climatica, chiedendo soldi per uno sviluppo pulito, non accettano controlli. Milioni di persone dei paesi più poveri pagano il prezzo più alto, pagano la tassa del progresso industriale americano, australiano, russo, con l'ostinata aspirazione di altre nazioni a raggiungere quel progresso e guadagnare una posizione stabile tra i grandi. Paesi come Cina e India con più di un miliardo di abitanti ciascuno e risorse naturali stanno immediatamente dietro Stati Uniti nella lista dei paesi più inquinanti. L'Occidente vuole che a farsi carico dei sacrifici più grossi siano i paesi in via di sviluppo, cioè Cina, India e Brasile, le economie che al momento corrono di più. Ma questi non ci stanno e rispolverano il Protocollo di Kyoto in scadenza il 2012 che imporrebbe ai paesi ricchi un taglio più drastico dei gas inquinanti.
Su questa diatriba, il negoziato procede a stenti. Senza una svolta, i rischi di un vertice senza accordi sono molti forti.
Il penultimo giorno del vertice giunge a Copenaghen Hillary Clinton, la quale facendo da apripista ad Obama che verrà l'indomani, rivolgendosi ai delegati, in particolare al premier cinese, cita un antico proverbio cinese: "Quando si è sulla stessa barca allora è meglio attraversare il fiume pacificatamente".
Si cerca un accordo in extremis, i 120 leader rinnovano gli appelli, costringendo gli sherpa del vertice a lavorare tutta la notte tra il 17 e 18 per preparare una bozza di accordo che possa servire come base per le discussioni finali dell'indomani. Il testo prevede un limite di due gradi centigradi sui livelli preindustriali dell'innalzamento della temperatura globale del pianeta ed un finanziamento ai paesi poveri di 100 miliardi di dollari entro il 2020.
Nell'ultimo giorno del vertice, arriva Obama, con un impegno chiaro: sbloccare le trattative e siglare un patto per salvare il pianeta dai pericoli del surriscaldamento globale. Tuttavia il primo leader mondiale a prendere la parola è il primo ministro cinese, il più atteso dopo Obama. La Cina prende molto seriamente la questione climatica, scandisce dal palco, mentre illustra quello che il governo di Pechino ha realizzato negli ultimi anni per ridurre l'impatto delle emissioni di anidride carbonica. Poi, lancia un monito alle nazioni industrializzate: "non serve ripartire da zero, bisogna muoversi dagli accordi di Kyoto". E il riferimento agli Stati Uniti che il Protocollo di Kyoto non l'hanno mai firmato e sin troppo chiaro.
Poi sale sul palco Obama. "Il tempo delle discussioni è finito, bisogna agire" dice guardando negli occhi la platea. E pone tre punti chiave: 1) tutte le maggiori economie del pianeta devono ridurre le emissioni. 2) Ci vuole trasparenza - riferendosi alla Cina che è riluttante sullo scambio d'informazioni -. 3) Il finanziamento ai paesi in via di sviluppo: l'America, ad accordo raggiunto, darà 10 miliardi di dollari l'anno come contributo al fondo di 100 miliardi di dollari entro il 2020.
E mentre Obama parla all'assemblea, si continua a discutere su stanziamenti e percentuali di riduzione delle emissioni nocive ma l'intesa è lontana e questo vale anche per la gestione dei fondi e delle tecnologie. Il Presidente degli Stati Uniti si propone nel ruolo di grande mediatore. Sembra tuttavia che vi sia il rifiuto della Cina ai sistemi di monitoraggio esterno sul proprio territorio ai tagli alle emissioni di CO2. Pechino che apre e chiude spiragli al dialogo spalleggiata da India e Brasile chiede il rispetto di tutti ma non tollera intromissioni nelle scelte per lo sviluppo economico.
Così, tra discussioni e affanni si giunge alla conclusione del vertice di Copenaghen con un accordo politicamente fragile, e poco ambizioso dal punta di vista ambientale, che non soddisfa nessuno. Un fiasco totale, un passo indietro rispetto al Protocollo di Kyoto, ha detto il direttore generale di Greenpeace. Non c'è un solo punto in cui si parla di obbligatorietà degli accordi, almeno il Protocollo di Kyoto era insufficiente ma era vincolante.
Sabato mattina 19 dicembre un Ban Ki Moon visibilmente spossato per l'estenuanti maratone negoziali ha annunciato che è stato raggiunto l'accordo, precisando che si tratta di un primo passo fondamentale. In sostanza, si tratta di un accordo non vincolante, di tre pagine appena, in cui ancora non figurano le stime dei tagli alle emissioni nocive da parte dei paesi firmatari, ne a medio ne a lungo termine, che dovrebbero invece pervenire entro la fine di gennaio 2010. E' vero che è stata raggiunta un'intesa sui fondi da destinare ai paesi in via di sviluppo, per farli crescere in maniera più ecologicamente ecocompatibile, ripartiti in 30 miliardi di dollari entro il 2012 e 100 miliardi al 2020, ma pesa la scelta di Washingthon di destinare per il fondo di 30 milardi, appena 3,6 miliardi di dollari, un terzo di quanto promesso dal Giappone. Anche sul contenimento del riscaldamento globale le cifre sono al ribasso. La proposta europea di contenerlo entro un grado e mezzo, è stata corretta in un più generico "al di sotto di due gradi". Una strada insomma che doveva rappresentare un punto di arrivo e che invece non è che l'inizio. Meglio di niente, c'è ancora molto da fare e bisogna creare un clima di maggiore fiducia tra le nazioni più ricche e quelle più povere per riuscire a raggiungere un'intesa vincolante, così si era espresso il giorno prima il Presidente americano Barak Obama, giunto a Copenaghen per firmare un trattato storico, e che invece si è trovato a negoziare fino all'ultimo per non tornare a casa a mani vuote.
Ora tutto è rimandato a giugno, quando si terrà una Conferenza a Bonn per preparare il prossimo vertice sul clima di dicembre 2010 a Città del Messico. La speranza è di ottenere per quella data un accordo legalmente vincolante e soprattutto più ambizioso. Senza accordi vincolanti, adesso, ognuno andrà avanti per conto suo.
Un summit finito al di sotto nettamente delle aspettative. Alla fine l'assemblea dei 192 Paesi presenti non hanno neanche approvato, han solo preso nota dell'accordo. Le regole delle Nazioni Unite prevedono l'unanimità ma Cuba, Venezuela, Bolivia, Nicaragua, Costarica, Sudan e Vanatu, isole che rischiano di essere risucchiate dall'Oceano Pacifico si oppongono fermamente. Il presidente del Sudan arriva anche a dire: è come l'olocausto, l'Africa sarà incenerita; mentre quello del piccolo arcipelago del Pacifico dice: ci avete svenduto per trenta denari. Costoro hanno detto No a quella che è stata considerata un'intesa non soddisfacente anche da parte di chi l'ha elaborata, vale a dire Stati Uniti, Cina, Brasile, India e Sud Africa. L'Europa ha poi accettato pur se a denti stretti.
Un continente muto che sembra sempre rassegnato. L'Africa è impantanata nei giochi di potere. Il continente nero è una bomba demografica: un milardo di persone oggi, erano appena la metà nel 1982. Lagos, capitale della Nigeria dei pozzi petroliferi e dei giacimenti di gas, dove i segni i segni di un benessere impensabile sino a dieci anni fa si pagano con un micidiale inquinamento, guarda alla Conferenza di Copenaghen con diffidenza: l'idea di rallentare la crescita appena iniziata preoccupa ma gli effetti evidenti dei cambiamenti climatici fanno altrettanta paura. Una città come Lagos deve infatti temere il grande mare dove si affaccia che da sempre è stata la sua ricchezza, ma il livello dell'Oceano Atlantico che si abbassa potrebbe spazzare via la capitale prima di Londra o di New York e non nel 22° secolo, ma già nel prossimo decennio. Piogge torrenziali e inondazioni sulla costa mentre all'esterno la siccità distrugge i raccolti. Lagos è diventata la città più popolosa dell'Africa, 12 milioni di abitanti, un fiume interrotto di umanità arriva qui ogni giorno per sopravviverci e se non ci riuscirà è pronta a cercare una strada altrove.
Tra le cause del riscaldamento globale ci sono anche le enormi torce perennemente accese che bruciano a cielo aperto il gas dei pozzi di petrolio. Sotto accusa c'è la Nigeria
Lo sfregio all'ambiente si vede dal satellite ma è difficile da rintracciare al suolo: le torce perpetue sono nascoste nelle foreste, protette dai militari, interdette agli estranei. I pinnacoli di fuoco, la parte discutibile della produzione di energia non è spettacolo da mostrare ne in Cina ne in Russia e nemmeno in Africa. La Nigeria è un'immensa terra di petrolio e di gas, con impianti che trasformano l'ambiente circostante in bolle torride e assordanti e che da 40 anni garantisce una buona parte della benzina usata in Europa. Nel delta del Niger le compagnie petrolifere occidentali, d'accordo col governo nigeriano, sfruttano i giacimenti petroliferi ma l'estrazione del petrolio è causa più micidiale dell'inquinamento, perchè dai pozzi scaturiscono dei gas naturali che vengono da decenni bruciati e dispersi nell'atmosfera. Un'assurdità che governanti locali e compagnie petrolifere si sono impegnati più volte a ridurre. L'ennesimo accordo prevede il recupero del gas a fini domestici entro il prossimo anno: un miliardo e mezzo di dollari è pronto. Nei mille villaggi intorno agli impianti la gente vive con l'equivalente di 6 dollari al mese, non sta con la guerriglia che sequestrava i tecnici occidentali ma nemmeno con i padroni degli impianti. Subiscono l'inquinamento, ma in cambio vorrebbero un mercato, mezzi di trasporto e qualche insengnante in più.
Nonostante ci siano alcuni scienziati che restano scettici d'innanzi al grande tema del riscaldamento globale, i quali pensano che il taglio delle emissioni di anidride carbonica per evitare la catastrofe climatica sia un lavoro inutile, in quanto, secondo loro, il surriscaldamento della Terra è dovuto a ragioni naturali di corsi e ricorsi climatici nella storia del pianeta, e malgrado a dare linfa a queste voci, ci sia stato, prima dell'apertura del vertice, una specie di climagate, cioè un miniscandalo basato su alcune email che si sarebbero scambiati scienziati ed ecologisti americani incoraggiandosi a vicenda ad esagerare sul peso delle emissioni sul surriscaldamento del pianeta, tanto da far pensare che il surriscaldamento possa giovare a qualcuno, i milleduecento delegati dello United Nations Climate Change Conference (COP 15) di Copenaghen chiamati a lavorare ad un trattato che salvi il pianeta, sono rimasti delusi dai risultati conseguiti.
L'obiettivo del vertice di Copenaghen si proponeva di mantenere l'aumento della temperatura globale entro i 2 gradi rispetto ail livelli preindustriali, che però cambiano da paese a paese, da continente a continente, perchè lo sviluppo economico non è iniziato, storicamente, per tutti nello stesso momento. Di qui, ad esempio, i contrasti tra paesi ricchi e paesi poveri, che rimproverano ai primi di aver inquinato il mondo da molto più tempo di loro e temono di essere penalizzati dalle misure di riduzione di anidride carbonica, ritenuta appunto responsabile del riscaldamento climatico. Per venire incontro a queste esigenze nei paesi emergenti è stato proposto, da parte delle nazioni sviluppate, un finanziamento di 100 miliardi di dollari, di qui al 2020, finalizzato allo sviluppo di tecnologie pulite, che avrebbero consentito una crescita economica non inqunante nei paesi in via di sviluppo. Sembrerebbe semplice, ma non è così! Per ottenere l'obiettivo dei due gradi di aumento della temperatura terrestre, secondo alcuni studi, l'Occidente dovrebbe ridurre le emissioni di anidride carbonica del 30%, i paesi emergenti del 20%. Cifre enormi, che probabilmente non impediranno, secondo le Nazioni Unite, di avere lo stesso 170 milioni di persone colpite da pesanti inondazioni costiere e 550 milioni di persone ridotte alla fame per l'aggravarsi della siccità.
Così, di fronte a queste enormi difficoltà su un possibile accordo, già a metà vertice, si è cominciato a respirare nell'aria odore di fallimento, facendo svanire la possibilità di siglare un accordo vincolante sul clima, tant'è che il ministro danese, presidente del vertice, ha voluto sintetizzare così lo stato dell'arte: "Siamo tra la fame e la vergogna", volendo dire in sostanza che il vertice non avrebbe portato a risultati soddisfacenti. Ciò lo ha indotto, dunque, a dimettersi dall'incarico, lasciando il suo posto al premier danese Rasmussen. Sembra, difatti, assodato, un fallimento della parte tecnica, per cui non rimane che sperare che le nazioni ricche e i paesi poveri possano magari trovare un compromesso per superare lo stallo.
Così si moltiplicano gli sforzi su tutti i fronti ed in un inusuale colloquio in teleconferenza, avvenuta negli ultimi giorni del vertice, tra Obama, Angela Merkel, Sarkozy e Gordon Brown si è cercato di raggiungere un accordo. Tuttavia, Obama ha problemi di far approvare in casa sua impegni superiori all'era Bush ma inferiori a quelli che l'Europa pratica e richiede. La Cina, dal canto suo, non vuole discuterne: continuerà ad inquinare forse un po meno.
Il segretario dell'Onu Ban Ki Moon insiste dicendo "Siamo qui per scrivere un futuro diverso del mondo". Ma in realtà Cina, Stati Uniti ed Europa non si mettono d'accordo. Sono i tre grandi inquinatori del mondo: la Cina con il 21,5% delle emissioni di anidride carbonica; gli USA col 20 e l'Europa col 15 per cento.
Anche il papa da Roma fa sentire la sua voce affermando che l'abuso del pianeta e dell'ambiente da parte di politiche nazionali e internazionali minaccia l'umanità e il suo futuro quanto le guerre e il terrorismo. Chiede quindi nuovi stili di vita, una rinnovata gestione alle risorse naturali.
Tuttavia, sebbene i paesi poveri vogliano una giustizia climatica, chiedendo soldi per uno sviluppo pulito, non accettano controlli. Milioni di persone dei paesi più poveri pagano il prezzo più alto, pagano la tassa del progresso industriale americano, australiano, russo, con l'ostinata aspirazione di altre nazioni a raggiungere quel progresso e guadagnare una posizione stabile tra i grandi. Paesi come Cina e India con più di un miliardo di abitanti ciascuno e risorse naturali stanno immediatamente dietro Stati Uniti nella lista dei paesi più inquinanti. L'Occidente vuole che a farsi carico dei sacrifici più grossi siano i paesi in via di sviluppo, cioè Cina, India e Brasile, le economie che al momento corrono di più. Ma questi non ci stanno e rispolverano il Protocollo di Kyoto in scadenza il 2012 che imporrebbe ai paesi ricchi un taglio più drastico dei gas inquinanti.
Su questa diatriba, il negoziato procede a stenti. Senza una svolta, i rischi di un vertice senza accordi sono molti forti.
Il penultimo giorno del vertice giunge a Copenaghen Hillary Clinton, la quale facendo da apripista ad Obama che verrà l'indomani, rivolgendosi ai delegati, in particolare al premier cinese, cita un antico proverbio cinese: "Quando si è sulla stessa barca allora è meglio attraversare il fiume pacificatamente".
Si cerca un accordo in extremis, i 120 leader rinnovano gli appelli, costringendo gli sherpa del vertice a lavorare tutta la notte tra il 17 e 18 per preparare una bozza di accordo che possa servire come base per le discussioni finali dell'indomani. Il testo prevede un limite di due gradi centigradi sui livelli preindustriali dell'innalzamento della temperatura globale del pianeta ed un finanziamento ai paesi poveri di 100 miliardi di dollari entro il 2020.
Nell'ultimo giorno del vertice, arriva Obama, con un impegno chiaro: sbloccare le trattative e siglare un patto per salvare il pianeta dai pericoli del surriscaldamento globale. Tuttavia il primo leader mondiale a prendere la parola è il primo ministro cinese, il più atteso dopo Obama. La Cina prende molto seriamente la questione climatica, scandisce dal palco, mentre illustra quello che il governo di Pechino ha realizzato negli ultimi anni per ridurre l'impatto delle emissioni di anidride carbonica. Poi, lancia un monito alle nazioni industrializzate: "non serve ripartire da zero, bisogna muoversi dagli accordi di Kyoto". E il riferimento agli Stati Uniti che il Protocollo di Kyoto non l'hanno mai firmato e sin troppo chiaro.
Poi sale sul palco Obama. "Il tempo delle discussioni è finito, bisogna agire" dice guardando negli occhi la platea. E pone tre punti chiave: 1) tutte le maggiori economie del pianeta devono ridurre le emissioni. 2) Ci vuole trasparenza - riferendosi alla Cina che è riluttante sullo scambio d'informazioni -. 3) Il finanziamento ai paesi in via di sviluppo: l'America, ad accordo raggiunto, darà 10 miliardi di dollari l'anno come contributo al fondo di 100 miliardi di dollari entro il 2020.
E mentre Obama parla all'assemblea, si continua a discutere su stanziamenti e percentuali di riduzione delle emissioni nocive ma l'intesa è lontana e questo vale anche per la gestione dei fondi e delle tecnologie. Il Presidente degli Stati Uniti si propone nel ruolo di grande mediatore. Sembra tuttavia che vi sia il rifiuto della Cina ai sistemi di monitoraggio esterno sul proprio territorio ai tagli alle emissioni di CO2. Pechino che apre e chiude spiragli al dialogo spalleggiata da India e Brasile chiede il rispetto di tutti ma non tollera intromissioni nelle scelte per lo sviluppo economico.
Così, tra discussioni e affanni si giunge alla conclusione del vertice di Copenaghen con un accordo politicamente fragile, e poco ambizioso dal punta di vista ambientale, che non soddisfa nessuno. Un fiasco totale, un passo indietro rispetto al Protocollo di Kyoto, ha detto il direttore generale di Greenpeace. Non c'è un solo punto in cui si parla di obbligatorietà degli accordi, almeno il Protocollo di Kyoto era insufficiente ma era vincolante.
Sabato mattina 19 dicembre un Ban Ki Moon visibilmente spossato per l'estenuanti maratone negoziali ha annunciato che è stato raggiunto l'accordo, precisando che si tratta di un primo passo fondamentale. In sostanza, si tratta di un accordo non vincolante, di tre pagine appena, in cui ancora non figurano le stime dei tagli alle emissioni nocive da parte dei paesi firmatari, ne a medio ne a lungo termine, che dovrebbero invece pervenire entro la fine di gennaio 2010. E' vero che è stata raggiunta un'intesa sui fondi da destinare ai paesi in via di sviluppo, per farli crescere in maniera più ecologicamente ecocompatibile, ripartiti in 30 miliardi di dollari entro il 2012 e 100 miliardi al 2020, ma pesa la scelta di Washingthon di destinare per il fondo di 30 milardi, appena 3,6 miliardi di dollari, un terzo di quanto promesso dal Giappone. Anche sul contenimento del riscaldamento globale le cifre sono al ribasso. La proposta europea di contenerlo entro un grado e mezzo, è stata corretta in un più generico "al di sotto di due gradi". Una strada insomma che doveva rappresentare un punto di arrivo e che invece non è che l'inizio. Meglio di niente, c'è ancora molto da fare e bisogna creare un clima di maggiore fiducia tra le nazioni più ricche e quelle più povere per riuscire a raggiungere un'intesa vincolante, così si era espresso il giorno prima il Presidente americano Barak Obama, giunto a Copenaghen per firmare un trattato storico, e che invece si è trovato a negoziare fino all'ultimo per non tornare a casa a mani vuote.
Ora tutto è rimandato a giugno, quando si terrà una Conferenza a Bonn per preparare il prossimo vertice sul clima di dicembre 2010 a Città del Messico. La speranza è di ottenere per quella data un accordo legalmente vincolante e soprattutto più ambizioso. Senza accordi vincolanti, adesso, ognuno andrà avanti per conto suo.
Un summit finito al di sotto nettamente delle aspettative. Alla fine l'assemblea dei 192 Paesi presenti non hanno neanche approvato, han solo preso nota dell'accordo. Le regole delle Nazioni Unite prevedono l'unanimità ma Cuba, Venezuela, Bolivia, Nicaragua, Costarica, Sudan e Vanatu, isole che rischiano di essere risucchiate dall'Oceano Pacifico si oppongono fermamente. Il presidente del Sudan arriva anche a dire: è come l'olocausto, l'Africa sarà incenerita; mentre quello del piccolo arcipelago del Pacifico dice: ci avete svenduto per trenta denari. Costoro hanno detto No a quella che è stata considerata un'intesa non soddisfacente anche da parte di chi l'ha elaborata, vale a dire Stati Uniti, Cina, Brasile, India e Sud Africa. L'Europa ha poi accettato pur se a denti stretti.
UNO SGUARDO SULL'AFRICA INQUINATA
Un continente muto che sembra sempre rassegnato. L'Africa è impantanata nei giochi di potere. Il continente nero è una bomba demografica: un milardo di persone oggi, erano appena la metà nel 1982. Lagos, capitale della Nigeria dei pozzi petroliferi e dei giacimenti di gas, dove i segni i segni di un benessere impensabile sino a dieci anni fa si pagano con un micidiale inquinamento, guarda alla Conferenza di Copenaghen con diffidenza: l'idea di rallentare la crescita appena iniziata preoccupa ma gli effetti evidenti dei cambiamenti climatici fanno altrettanta paura. Una città come Lagos deve infatti temere il grande mare dove si affaccia che da sempre è stata la sua ricchezza, ma il livello dell'Oceano Atlantico che si abbassa potrebbe spazzare via la capitale prima di Londra o di New York e non nel 22° secolo, ma già nel prossimo decennio. Piogge torrenziali e inondazioni sulla costa mentre all'esterno la siccità distrugge i raccolti. Lagos è diventata la città più popolosa dell'Africa, 12 milioni di abitanti, un fiume interrotto di umanità arriva qui ogni giorno per sopravviverci e se non ci riuscirà è pronta a cercare una strada altrove.
Tra le cause del riscaldamento globale ci sono anche le enormi torce perennemente accese che bruciano a cielo aperto il gas dei pozzi di petrolio. Sotto accusa c'è la Nigeria
Lo sfregio all'ambiente si vede dal satellite ma è difficile da rintracciare al suolo: le torce perpetue sono nascoste nelle foreste, protette dai militari, interdette agli estranei. I pinnacoli di fuoco, la parte discutibile della produzione di energia non è spettacolo da mostrare ne in Cina ne in Russia e nemmeno in Africa. La Nigeria è un'immensa terra di petrolio e di gas, con impianti che trasformano l'ambiente circostante in bolle torride e assordanti e che da 40 anni garantisce una buona parte della benzina usata in Europa. Nel delta del Niger le compagnie petrolifere occidentali, d'accordo col governo nigeriano, sfruttano i giacimenti petroliferi ma l'estrazione del petrolio è causa più micidiale dell'inquinamento, perchè dai pozzi scaturiscono dei gas naturali che vengono da decenni bruciati e dispersi nell'atmosfera. Un'assurdità che governanti locali e compagnie petrolifere si sono impegnati più volte a ridurre. L'ennesimo accordo prevede il recupero del gas a fini domestici entro il prossimo anno: un miliardo e mezzo di dollari è pronto. Nei mille villaggi intorno agli impianti la gente vive con l'equivalente di 6 dollari al mese, non sta con la guerriglia che sequestrava i tecnici occidentali ma nemmeno con i padroni degli impianti. Subiscono l'inquinamento, ma in cambio vorrebbero un mercato, mezzi di trasporto e qualche insengnante in più.
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